La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste, chiosa un famoso film. Ieri il Tribunale ha sentenziato che, a Cantù, il diavolo esiste, eccome, nonostante la politica (e non solo) abbia fatto finta di non vederlo. Le nove condanne, pronunciate nel processo per le violenze dei clan ai margini della movida canturina, se da un lato segnano una conferma autorevole di quanto aveva scoperto l’inchiesta di carabinieri e procura antimafia, dall’altro non possono che essere considerate una sconfitta. Non già per la giustizia (anzi), ma per tutti noi.
Per almeno tre ottimi motivi. Il primo: per due anni a Cantù sono stati lasciati proiettili sulle auto dei commercianti, lanciate bottiglie incendiarie contro discoteche, esplosi colpi di pistola contro vetture in transito, fratturati nasi e mandibole, sparato alle gambe del nipote di un notissimo ’ndranghetista, sfigurato con un fucile a canne mozze un giovane barista, e diavolo se qualcuno di coloro che sapevano con chi avevano a che fare si fosse fatto avanti dai carabinieri per dire: ora basta. Non ci fosse stata l’intuizione di un manipolo di ottimi investigatori, forse oggi la sicurezza di piazza Garibaldi sarebbe in mano a uomini manovrati dai clan (questo, sospettano gli inquirenti, era il progetto ultimo di questa strategia della tensione).
Il secondo: le reazioni di certa politica subito dopo gli arresti sono state un momento imbarazzante per chi rappresenta questo Paese. Un assessore (quindi un uomo dello Stato) che minimizza i reati contestati dall’antimafia (organo dello stesso Stato) parlando di bullismo, senza aver neppure lasciato il tempo agli inquirenti di chiudere l’inchiesta, è un danno incalcolabile alla credibilità stessa delle istituzioni. Reso ancor più grave dalla decisione - un autogol clamoroso, alla luce della sentenza di ieri - del Comune di Cantù di non costituirsi parte civile nel processo.
La terza: nel corso del dibattimento abbiamo assistito ad alcune imbarazzanti testimonianze, esempi di un’omertà e di un assoggettamento che a queste latitudini erano imputati (a torto) solo al Sud Italia. E che, invece, abbiamo scoperto essere un patrimonio anche brianzolo. Perché il diavolo esiste e, da decenni, abita nel pianerottolo accanto al nostro.
La sentenza di ieri ha però indubbiamente un merito. Ed è il messaggio forte, chiaro, netto lanciato alla ’ndrangheta dallo Stato. Un messaggio che non ha a che fare tanto con la pena inflitta agli imputati, che distribuire anni di carcere non fa piacere a nessuno, se non ai cinici e agli ingenui, quanto piuttosto al principio che la giustizia non può essere amministrata da nessun’altra parte che in un’aula di Tribunale.
I clan da sempre cercano di sostituirsi alle istituzioni nella gestione della giustizia, distribuendo condanne (spesso a morte) e assoluzioni, eseguendo le loro sentenze sommarie, ponendosi come ago della bilancia nelle controversie applicando un personalissimo codice e, così facendo, giocano il loro ruolo sul doppio binario del consenso e del terrore. Spesso il qualunquismo dilagante spinge a puntare il dito contro la giustizia, i suoi tempi, i suoi inevitabili difetti. Eppure solo la dialettica tra accusa e difesa, solo le regole del contraddittorio, solo le garanzie offerte dal Codice, solo il rispetto pur in ruoli contrapposti che esiste tra avvocati e pubblico ministero, solo l’ovattato distacco da emozioni e personalismi che si respira nell’aula di un Tribunale, consentono di marcare netta la linea che separa de mondi inconciliabili: quello della ’ndrangheta e il nostro. Anche nell’inconsapevole Cantù
© RIPRODUZIONE RISERVATA