La politica estera e le due Italie

Il governo italiano ha una linea di politica estera espressa dal presidente del Consiglio, leader del partito di maggioranza relativa, e dal suo ministro degli Esteri (capo del secondo partito del centrodestra) e una linea di politica estera alternativa portata avanti dal vicepremier e ministro delle Infrastrutture, leader del terzo partito della coalizione. Una condizione, per usare un eufemismo, piuttosto bizzarra, sicuramente scomoda e, presumibilmente, destinata a non durare troppo a lungo. Tra Meloni e Tajani da una parte e Matteo Salvini dall’altra la partita politica si sta giocando su molti piani (vedi le nomine parastatali, a cominciare dalla tv) ma quello della politica estera è il più delicato e pericoloso. Ma vediamo i fatti.

All’assemblea NATO di Washington Meloni ha confermato l’aiuto all’Ucraina anche con le armi e l’aumento graduale della spesa per la difesa. Sin dal primo giorno Meloni ha schierato l’Italia sulla linea degli USA di George Biden, della Francia, della Gran Bretagna, anche della Germania, e non su quella di Orban che pure per la destra meloniana in Europa è stato a lungo un punto di riferimento.

Ma proprio mentre il governo alla NATO ribadisce la sua linea di coerenza atlantica, Matteo Salvini ripete che aumentare le spese militari è una cosa che non porta alla pace mentre il suo vice si dissocia dagli aiuti militari all’Ucraina. Nello stesso tempo sempre Salvini non perde occasione per far sapere che spera nella vittoria di Trump, che anzi ha sentito l’ex presidente al telefono e che presto si farà ricevere da lui. Salvini si colloca così su una linea che è in netto contrasto con quella di palazzo Chigi e della Farnesina anche se finora la Lega non si è mai discostata nei voti parlamentari dalle posizioni ufficiali, e questo – ripetono nella coalizione – è ciò che conta.

Però poi c’è anche il versante europeo delle posizioni di Salvini: mentre Meloni si è astenuta sulla ricandidatura di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione e sta trattando con lei per ottenere una poltrona prestigiosa nell’esecutivo comunitario (la vicepresidenza esecutiva sembra ormai sfumata), Salvini non fa passare giorno senza attaccare Ursula, la maggioranza che si appresta a sostenerla al Parlamento europeo, la sua politica soprattutto del Green Deal e delle migrazioni.

Quando il vicepremier di un governo attacca alzo zero la leader della UE da cui la premier cerca di ottenere dei riconoscimenti sostanziali, la situazione rischia di diventare imbarazzante: di sicuro non aiuta Roma a centrare i suoi obiettivi, e questo si trasforma automaticamente in un attacco proprio a Giorgia Meloni, un po’ come tutto quello che abbiamo elencato sinora. Senza dimenticare che la costruzione del gruppo europeo dei “Patrioti” è stata decisa da Salvini e alleati proprio per ridimensionare i “Conservatori” di cui Meloni è presidente.

Quanto può durare uno stato di tensione del genere? Quanto può resistere Giorgia Meloni a rispondere alle domande sempre meno felpate che gli alleati le pongono in sede internazionale?

Resta la grande domanda sul rapporto con gli USA, che è poi la cartina al tornasole di tutte le politiche: che succederà a novembre? In che modo l’esito peserà sui rapporti politici interni?

Non bisogna dimenticare che le vecchie coalizioni di centrosinistra fallirono proprio sulla politica estera quando la sinistra bertinottiana silurava la linea di Prodi e ogni voto sulle missioni di pace diventava uno psicodramma. Oggi il vantaggio del centrodestra è che quelle divisioni tra i suoi avversari sarebbero destinate a riproporsi più o meno nello stesso modo a cominciare dalla questione delle armi all’Ucraina.

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