E’ un po’ come la storia dell’eterno ritorno: se gratti l’Hamas, ti salta fuori il Che Guevara.
L’esperienza della vita - e la cultura liberale - insegna a diffidare delle piazze. Soprattutto delle piazze ululanti. All’inizio sembra che ululino cose nuove, ma poi, se le ascolti bene, ti accorgi che ululano sempre le stesse cose. Slogan sbrindellati. Demagogia stracciona. Capri espiatori da attaccare per i piedi al primo lampione. Sintassi da terza elementare. Certezze inscalfibili. Promesse palingenetiche di un mondo perfetto che sta per arrivare. Insomma, le solite fregnacce.
Ce li ricordiamo tutti i formidabili comizi e le ancor più formidabili manifestazioni studentesche di quei super formidabili anni e quanto fosse bello glorificare il Comandante e quanto fosse pop, anzi, quanto fosse rock, e quanto fosse di moda, di tendenza, inneggiare alla rivoluzione proletaria e al mondialismo e al terzomondismo e al movimentismo e al cheguevarismo, appunto. E quanto fosse gratificante lanciare la caccia al borghese, all’imprenditore, al magistrato, al carabiniere e quanto tutto questo facesse sentire dalla parte giusta della storia, con il vento che gonfiava le proprie vele e quanto si fosse tutti quanti impegnati e libri e conferenze e appelli umanitari e tazebao e Ho Chi Minh e performance e salotti e occupazioni scolastiche e pantere universitarie e i compagni cinesi e i compagni vietnamiti e i compagni cubani e i compagni che sbagliano, ma, insomma, i padroni e i loro servi un po’ se l’erano cercata e né con lo Stato né con le Br e tutta quella sequela di solenni cretinate grazie alle quali i liderini del Sessantotto, con tutta la loro sicumera pulciosa, cisposa e forforosa, organizzavano la rivoluzione proletaria nella casa del papà in Sardegna.
Bene, tutta quella roba lì, tutta quella fuffa, era soltanto finzione scenica. Un modo di essere. Un modo di far parte del generone, del pensiero unico conformista, del senso comune verboso e logorroico che non aveva alcun contatto con la realtà effettuale, ma che si risolveva in una pomposa esibizione – paradossalmente molto violenta - di retorica antimilitarista e pacifista. I contenuti non contavano. Erano solo bandiere da sventolare per sentirsi parte del club degli intelligenti. Una stagione finita, grazie al cielo, seppellita da una risata.
E invece no. Perché quella che stiamo vivendo adesso è, più o meno, la stessa cosa. Cambiano le generazioni, cambiano gli interpreti, cambiano gli eroi e i cattivoni, ma il contenuto è identico. E il contenuto ha ben poco a che vedere con l’essenza e la sostanziale irrisolvibilità del conflitto arabo-israeliano - c’è forse una persona sana di mente che può dire che è 100% colpa di questi o 100% di quelli? che ha la soluzione in tasca? la soluzione non c’è… – ma ha molto a che vedere con l’analfabetismo funzionale e con il trionfo dell’ideologia in un mondo che pareva essersela messa finalmente alle spalle.
La cosa ridicola - tragicamente ridicola, s’intende - è che le numerosissime e affollatissime piazze antisemite in Italia e in tutto l’occidente, e più sono paesi sviluppati più sono antisemiti, prescindono del tutto dal contesto. Il contesto non esiste. L’analisi dei fatti non esiste. E se viene fatta, è solo per distorcerla totalmente. In nessun altro dibattito come quello arabo-israeliano esiste una sproporzione così clamorosa tra l’eccitazione e l’ignoranza, tra la valanga di slogan sbrodolanti e la cognizione minima di storia e geografia. La Palestina - purtroppo - non è l’oggetto di un’attenta analisi storica e di una seria valutazione politica. E’ un rito. Un mantra. Uno stereotipo. Un evento glamour. Un happening. Un “aperifada”. Un palcoscenico dove si esibiscono certezze e si lanciano scomuniche. Nel quale Hamas ed Hezbollah sono “eroi culturali”. Un acquario nel quale sguazzano, o meglio, galleggiano, antagonisti, pacifisti (?), fasciosferisti, tangheri, attori, giornalisti à la page, scrittori “de sinistra”, filosofi militanti, no vax, docenti universitari che firmano appelli, professoresse democratiche e antifasciste (ma che c’entra?), radical chic da attico di Manhattan alla Tom Wolfe e il resto dell’Armata Brancaleone al seguito. E tutti a sbraitare dagli all’ebreo, dagli al giudeo, dagli al sionista. Che, come noto, è sinonimo di nazista, vero? E attenzione. A tutti questi della Palestina interessa meno di zero. Ecco la verità.
Una roba tragica. Ma anche spassosa. C’è da spanciarsi dalle risa a leggere come secondo un sondaggio, citato nel saggio “La nuova caccia all’ebreo” di Pier Luigi Battista, i manifestanti filo Hamas spiegano il celeberrimo slogan sullo Stato palestinese che deve andare “from the river to the sea” (cioè dal Giordano al Mediterraneo, facendo quindi scomparire del tutto Israele dalla carta geografica). Larga parte dei sedicenti novelli rivoluzionari non sa una mazza di quello che urla: chi dice dal Nilo al Caspio, chi dall’Eufrate al mar Rosso, chi dall’Alcantara al mar Ionio e via di somaraggine in somaraggine, alle quali potremmo quindi, a buon titolo, aggiungere dal Cosia al Segrino, dal lago di Garlate al Gerenzone o anche dal Mallero al golfo di Piona. Una roba da sotterrarsi.
A questo punto, avrete tutti ben capito che la povera Palestina e i poveri palestinesi, così come il povero Israele e i poveri israeliani, non c’entrano nulla. Di loro non importa niente a nessuno. Soprattutto a quelli che passano i weekend a trombonare sulla loro purezza assoluta e sulla assoluta crudeltà dei loro aguzzini. I palestinesi sono solo, ancora una volta, gli strumenti del delirio piccolo borghese dello studente collettivo conformista, che rimesta da mezzo secolo la solita sbobba, la solita trilogia dell’antisionismo, dell’antiamericanismo e dell’anticapitalismo. Sempre le solite cose. Sempre le solite piazze. Sulle quali, in tempi non sospetti, Alessandro Manzoni, nella descrizione dell’assalto ai forni, aveva già scritto parole definitive.
@DiegoMinonzio
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