E così, alla fine, si è arreso pure lui. Ha preso il corpo inerte della sinistra all’italiana, gli ha dato un’ultima spolverata, un estremo ritocco all’abito del più importante dei giorni e lo ha deposto come un fiore nel sepolcro della memoria. Finito tutto. I furori giovanili. I rivoluzionari del catasto. Le idiosincrasie classiste. I tic. I birignao. Le ire funeste contro Alberto Sordi. Le battute folgoranti. L’essere di sinistra. Tutto finito. Ei fu.
Ogni nuovo film di Nanni Moretti è ben altro dall’essere mero cinema, ma evento epocale, epifania di una verità, trattato sociologico per auscultare quel pezzo di Italia che tanto ha pesato e inciso nel costume nazionale e nella sua cultura, nella sua psicologia, nella sua dimensione antropologica. La sinistra. L’essere di sinistra. Alternativa, critica, colta, spocchiosetta, snobbissima, pesce pilota del partito comunista, fronda, opposizione di sua maestà, arzigogolo sociologico dal quale non si può scappare perché è lì – nella Roma movimentista e gruppettara degli anni Settanta – che è nato tutto, compresa la classe dirigente or ora sbattuta in prepensionamento dall’alieno Renzi. Perché essere comunista, in quegli anni, non voleva tanto dire aver letto Marx, Engels o i cervelloni della scuola di Francoforte, e ancor meno volerli imitare, quanto invece aver frequentato quei licei, quelle terrazze, quei cineforum, quelle sedute di autocoscienza, quelle vacanze al mare e quindi quelle spiagge, quei rituali, quel mainstream. Insomma, aver vissuto con quelle persone, perché mai come nel loro caso vale la massima secondo la quale ognuno di noi “è” le sue relazioni. E tutto questo alla faccia e in barba alle tragedie - e alla collateralità intellettuale - del terrorismo, della rivolta sociale, della crisi economica.
E da tutto questo magma, da tutto questo tramestio, Moretti è stato capace di creare un cinema suo, originalissimo, ostentatamente autoreferenziale (ricordate la frecciata di Dino Risi? «Spostati, che devo vedere il film!»), sempre irrisolto e irritante, ma al contempo a tratti profondissimo e profetico nel capire la vera natura della sinistra italiana e nel farne un ritratto demolitorio, devastante, anche se comunque sempre certo della propria superiorità morale rispetto alla palude centrista e alla fogna destrorsa. È per questo che Moretti è dalle origini, e a ragione, un regista di culto, amatissimo anche tra gli intelligenti e i colti di destra - a trovarli… -, autore di assoluta genialità per quanto modesto attore e regista pieno di pecche. “Ecce bombo”, “Bianca” e “La messa è finita” (i suoi capolavori) fino a “Palombella rossa” e “Caro Diario”: se volevi capire cosa fosse quella roba lì e che cosa stesse accadendo nella pancia e nei meandri mentali di quel generone progressista partito dalle occupazioni delle università e finito a fare la classe dirigente del paese (di sinistra e di destra, forse soprattutto di destra…) dovevi vedere il nuovo film di Moretti. Lì c’era tutto.
Beh, ora quel Nanni non c’è più. Il magnifico quarantenne si è trasformato in un triste, silenzioso e, la cosa peggiore di tutte, prevedibilissimo sessantenne. Un guizzo qualche anno fa con “Habemus Papam” – idea profonda, come al solito; sviluppo così così, come al solito – e poi basta. Il suo nuovo film “Mia madre” prosegue la linea inaugurata un quindicennio fa con “La stanza del figlio”. Sceneggiatura classica, plot da romanzo medio borghese basato sulla più scontata e ricattatoria delle emozioni: la morte del proprio figlio, la morte della propria madre. Lo choc, il dolore, la depressione devastante, il vuoto di senso, la vita che nonostante tutto continua, la malinconia foderata di ricordi come dono, o supplizio, da portare in grembo per il resto della vita. Grande rigore, grande commozione, totale inutilità. Quando il protagonista de “La messa è finita” vede la madre senza vita nel suo letto, regala una delle battute più memorabili del suo cinema, che tutti quanti possono sentir pulsare nelle proprie carni: «Perché lo hai fatto? Non te lo perdonerò mai. Adesso a me chi ci pensa?». In questo nuovo film non c’è niente di tutto questo. Solo prosa, dettato, pedagogia. Non c’è spiazzamento, originalità.
Addomesticato, normalizzato, tarpato, reduce, orfano. Silenzioso. Moretti non ha più nulla da dire di sferzante sui rapporti umani? Non ha più niente da scandagliare sulla sinistra degli anni Dieci, finalmente e incredibilmente al potere? Dov’è finito l’indignato che urlava agli storici capataz dell’alleanza progressista che con quei dirigenti non avrebbero vinto mai? Ora hanno vinto. Vinto e stravinto. Gli altri sono un esercito in rotta, Caporetto, Waterloo, otto settembre. Eppure è come se lui non avesse più niente da dire. Come se lo scarto imprevisto della piccola storia nazionale gli avesse tolto linfa, intuito, acume, energia. E non è certo una questione di età, ma forse di incomprensione dei tempi che cambiano, la stessa che – spietato contrappasso – aveva colto il grande Monicelli quando, nel celebre scontro televisivo in un “Match” del 1977 condotto da Arbasino, era stato aggredito e strapazzato da un Moretti furente che, nell’arroganza dei suoi vent’anni, sembrava voler fare a pezzi il sessantenne famoso, campione – e mai analisi fu così sbagliata - della nomenclatura del partito comunista.
Basta Sacher, basta schiaffi alla giornalista petulante perché «le parole sono importanti: chi parla male, pensa male!», basta pasticceri trotzkisti, basta Nutella, basta fenomenologia delle scarpe, basta «ve lo meritate Alberto Sordi!», basta «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?». Basta tutto. Restano solo le recensioni entusiastiche a prescindere e la bava del novanta per cento dei critici cinematografici, guarda caso tutti figli dalla stessa scuola.
Che peccato. Dì ancora una cosa di sinistra, Nanni, per favore. Dì una cosa di sinistra. Anche non di sinistra. Dì qualcosa.
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