Si chiama “Dedicata a te”, la nuova versione della social card, una sorta di tessera annonaria riservata a un milione e 300 mila italiani, caricata con 382,5 euro per acquistare alimenti e beni di prima necessità e far fronte all’aumento dei prezzi in questo settore, che nonostante il calo degli altri settori non accenna a diminuire (anche per motivi chiaramente speculativi di qualche ingranaggio della filiera).
Si tratta di elemosina di Stato, pur con un nome gentile che sembra inventato dall’ufficio marketing di un supermercato? Può anche darsi, ma considerato che nel settore alimentare l’inflazione è a due cifre, la più alta da 40 anni, è pur sempre una buona notizia. Servirà a lenire il caro prezzi di questi mesi per tante famiglie costrette a modificare il loro stile di vita, a tirare la cinghia, a spendere di meno e a deprimere i loro consumi quotidiani. Perché il provvedimento ovviamente ha anche un effetto macroeconomico sulla domanda dei beni previsti dalla “card” e dovrebbe aiutare a far girare il tradizionale circolo virtuoso consumi-produzione-occupazione.
Se però andiamo a vedere a chi è “dedicato” il provvedimento allora forse qualche criticità nasce perché si tratta di una platea molto ristretta: chi ha un Isee fino a 15 mila euro all’anno. Saranno i Comuni a fare i necessari accertamenti sugli aventi diritto. Il problema è che le persone morse dalla povertà sono almeno il doppio, per non parlare del fenomeno dei “working poors” coloro che pur lavorando rimangono indigenti a causa dello stipendio misero.
È certamente una delle priorità di qualunque governo in questa tormentata fase storica. Pare anche che il numero delle tessere sia inferiore agli aventi diritto e che sia razionato di Comune in Comune. Inoltre il caro vita è diverso a seconda delle regioni del Paese. 15 mila euro di Isee a Palermo non sono le stesse di Como, Lecco e Sondrio, il potere d’acquisto nella prima città è molto maggiore e non sono previste “gabbie” territoriali relative alla distribuzione delle card.
Come è noto la tessera riguarda beni di prima necessità ed esclude gli alcolici. Ma non è questa la misura che riduce la povertà. L’elemosima di Stato – con le più nobili intenzioni - non può contribuire a sollevare tante persone dalla fascia dell’indigenza. Per questo c’è una sola ricetta: il lavoro. Dopo la riduzione della platea dei destinatari del reddito di cittadinanza è l’unica misura possibile per poter cambiare le sorti del Paese.
L’ultimo rapporto della Caritas nazionale elaborato anche su basi Istat è drammatico: sempre più cittadini italiani escono dal ceto medio per entrare nel girone dei nuovi poveri. Si allungano le file di coloro che bussano alle porte della Caritas, dalle mense agli spacci, in maggioranza donne, mentre crescono i lavoratori sottopagati che non riescono ad arrivare a fine mese per il caro affitti e i rincari delle bollette.
E se continua a chiedere aiuto un 48 per cento di persone disoccupate e inoccupato, un quinto degli ascolti ha riguardato un lavoratore (più spesso una lavoratrice) che sperimenta condizioni di indigenza. I lavoratori poveri, appunto, cittadini che hanno occupazioni precarie e mal pagate. Su questi l’inflazione, la tassa dei poveri, ha un effetto devastante. La social card tra l’altro è destinata a nuclei familiari con almeno tre componenti. Dunque una donna o un uomo single con un figlio non ne hanno diritto. Una scelta davvero discutibile, fatta forse con un non comprensibile e malinteso fine pseudo “familista” che non guarda all’essenza delle cose, ai veri bisogni, alla dignità della persona.
© RIPRODUZIONE RISERVATA