Ci sono classifiche capaci di attirare all’istante l’attenzione dell’osservatore più distratto. Per questa ragione, giornali e mezzi d’informazione in genere non se le fanno mai scappare.
Le città più costose, gli allenatori più esonerati, le attrici più pagate, i Paesi dove si vive più a lungo e quelli dove, al contrario, ci si avvia con troppa sollecitudine sulla strada del cimitero. Guardiamo a queste classifiche con un’anticipazione destinata quasi sempre ad andare delusa: cerchiamo sorprese, troviamo conferme e ovvietà. Oppure – eventualità non rara – scopriamo che la graduatoria in esame poggia su premesse discutibili, vaghe, dubbie sotto il profilo della logica.
Prendiamo ad esempio la classifica, aggiornata di anno in anno, delle lingue più parlate nel mondo. Stabilmente in testa si dà sempre l’inglese, parlato, così si calcola, da un miliardo e 190 milioni di persone.
La particolarità dell’inglese è che è diffusissimo come lingua in generale ma non altrettanto come madrelingua: solo 378 milioni di individui sono in effetti anglofoni, tutti gli altri usano l’inglese per lavoro, per studio, oppure in viaggio. In altri termini, sono “parlatori” acquisiti. Non altrettanto si può dire di chi parla il mandarino, lingua ufficiale della Cina, di Taiwan e di altre enclavi cinesi: secondo idioma più diffuso al mondo, è parlato da un miliardo e 107 milioni di persone di cui ben 908 milioni madrelingua.
La classifica di cui sopra, apparentemente scientifica, cade però proprio sulla definizione di “lingue parlate”.
In realtà essa si limita a conteggiare il numero di individui che, in teoria, padroneggiano ogni idioma, trascurando del tutto il volume di parole che ognuno di loro emette ogni giorno, un dato che invece sarebbe essenziale per determinare quale lingua sia in effetti la più “parlata”. Nella classifica così come è concepita oggi, l’italiano ottiene un modesto ventunesimo posto, eppure basta piazzarsi un pomeriggio in attesa dal barbiere per rendersi conto che, in quanto a emissione di parole – spesso impiegate per vanterie generiche, elaborazione di teorie improbabili, giudizi irrevocabili su qualunque capitolo dello scibile umano, pronostici spericolati e poemi epici dedicati a presunte corride sessuali – meriteremmo una posizione di maggior rilievo, perché è cosa certa che ogni connazionale in fatto di chiacchiera può umiliare in qualunque momento e su qualunque terreno un parlatore di lingua inglese, sia esso anglofono oppure no.
Purtroppo su questo punto i compilatori della classifica non ci sentono – fatto singolare e inopportuno per chi si occupa di lingue parlate – e pertanto tocca abbozzare.
Per fortuna, ci soccorre una classifica parallela, quella delle lingue più “studiate”, che secondo la rivista Ethnologue, vede l’italiano al quarto posto, avendo superato il francese il che, diciamolo pure, aggiunge un pizzico di gusto extra a tutta la faccenda. Inglese, spagnolo e cinese – che guidano la classifica – restano inarrivabili, ma fa comunque piacere vedere l’idioma di Dante comportarsi così bene in un settore, quello dello studio, certamente legato alla cultura, ovvero alla trasmissione del sapere.
Per modestia, se non per pudore, le istituzioni hanno cercato di contrastare questo fenomeno nominando Sangiuliano e Lollobrigida in posti chiave, ma non è servito a nulla. Nel mondo c’è chi ancora si ostina a vedere nell’Italia un possibile scrigno di cultura e nella sua lingua il codice per decifrarla. A questo proposito, occorre dunque ribadire che, come chiosava Totò con fierezza, c’è chi può e chi non può. Noi può.
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