Se c’è qualcosa che i miei affezionati lettori ben conoscono di me, credo sia il disprezzo assoluto per quella risma di raffazzonate metafore che servono solo a mascherare la realtà dei fatti. Mi garba esprimere le mie opinioni, come è evidente dagli editoriali che il lunedì arrivano qui puntuali come il gazzettino padano delle sette, ma resto pur sempre un fedele affezionato della cronaca, dei dati di fatto, del sano pragmatismo lecchese.
Mi si perdoni quindi se mi risulta più indigesta di una trippa al sugo l’orrenda definizione di “Pennsylvania italiana” appiccicata con lo sputo al vetro liscissimo dei 320mila votanti dell’Umbria; in sostanza l’equivalente (anzi meno) degli abitanti della provincia di Lecco. Che una classe politica sia ridotta a imbastire una campagna elettorale degna di un referendum monarchia-repubblica, che un intero Paese sia costretto a sorbirsi titoli e collegamenti in diretta per giorni e giorni, mi pare francamente un insulto alla nostra intelligenza e tolleranza. Sa il cielo cosa diavolo mai potrà suggerire, riguardo le tendenze politiche del Paese, il risultato maturato nella grandiosa megalopoli di Spoleto, o nel cuore delle sconfinate praterie di Nocera Umbra.
La realtà dei fatti è che, in un granello di polvere al meridione d’Europa, è andata a votare ancora meno gente di cinque anni fa. Anzi, un umbro su due è rimasto tranquillamente a casa a godersi gli strangozzi. Ed è francamente molto arduo non ravvisare la deriva di una politica che è incapace di cogliere il senso grottesco di una simile situazione. I leader che si precipitano a Perugia, le feste e le guasconate degne di un Calendimaggio, quel Giuseppe Conte che proclama una vittoria dai contorni risibili (il 4%), a meno che ovviamente l’obiettivo non fosse quello di rianimare con tanto di trasfusioni il debilitato Pd. Insomma, siamo addirittura un passo oltre l’orchestrina del Titanic: quelli almeno si erano resi conto dell’affondamento ormai imminente.
Trattare delle disgrazie nazionali, però, mi è anche utile per trovare i giusti termini di paragone per quelle locali. Anzitutto, una premessa. A confronto con il circo umbro, qui siamo ancora all’Agorà ateniese. E cogliendo l’assist della traduzione greco antico-italiano (la mia memoria si spinge, volendo, fino anche all’aoristo) è proprio di Piazza che vorrei parlare. Mauro, nello specifico.
Non posso non commentare lo stuolo di commenti arrivati a rimorchio dell’intervista che il sottosegretario leghista ha consegnato alle colonne del nostro quotidiano. “Troppi veleni nel centrodestra, faccio un passo indietro dall’intenzione di candidarmi a sindaco”, è nella sostanza il suo messaggio. Ora, non ho nessuna voglia di ficcare il naso negli affari del centrodestra, ma mi pare altrettanto grottesco che le varie corti dei miracoli della destra locale (politicamente mature come un caco verde oppure rappresentate da capibastone che cambiano più caselle del gioco dell’oca) si affrettino a commentare, e sogghignare, e fregarsi le mani dopo l’arrivederci di uno dei pochi “cavalli di razza” del campo moderato lecchese. La città di Lecco non è mai stata di destra ( nè tantomeno di destra destra) e chiunque pensi di fare il surfista cavalcando i numeri nazionali di qualche simbolo, rischia di ritrovarsi una volta ancora con un pugno di sabbia tra le mani: clessidre umane.
Sarebbe forse meglio, se questa spuria dozzina volesse accettare il mio consiglio: mettere da parte l’orgoglio e la sguaiatezza, i calcoli e le ripicche, e cercare fin da subito una figura di livello adeguato nella società civile lecchese. Io qualche nome ce l’ho in mente, ma ovviamente me lo tengo cucito in bocca, visto che la destra lecchese ha dimostrato di saper bruciare più nomi di un conclave.
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