A volte basta una banale comunicazione aziendale per definire lo stato d’animo di un intero Paese. A Thyssenkrupp non si festeggia Natale. Il colosso dell’acciaio tedesco deve risparmiare e di festeggiare non se ne parla. In piena crisi aziendale e nazionale i primi a cadere sono i biscotti che l’azienda offre ai suoi dipendenti.
Volkswagen, altro marchio iconico tedesco, è più prosaica e cita numeri. Comunica un calo degli utili del 64% , la chiusura di tre impianti in Germania, la progressiva eliminazione di 15mila posti di lavoro e la riduzione delle retribuzioni del 10%. Le immatricolazioni delle elettriche del gruppo hanno superato in Germania Tesla. Ed è già un risultato. Quel che pesa è la Cina. Qui VW era leader con il 40% della produzione sul mercato cinese. Adesso BYD con 2,3 milioni di veicoli immatricolati nei primi tre trimestri ha sorpassato quelli che una volta erano i suoi maestri .E ai produttori cinesi l’avvenire arride.
Lo sviluppo tedesco degli ultimi 15 anni rivela invece la sua fragilità strategica. Puntare solo su Russia e Cina nella convinzione che l’interesse economico sarebbe prevalso sulla ragione politica è il peccato originale della Germania della riunificazione. L’idea che con l’aiuto russo e cinese si sarebbe realizzato uno spazio economico di vantaggio ha affascinato la classe dirigente tedesca. Sul piano politico significava emanciparsi dalla tutela americana. Il rifiuto dell’allora cancelliere Gerhard Schröder all’invito americano a partecipare alla guerra del Golfo del 2003 in Iraq ne è stata la consacrazione.
Il cosiddetto ’Sonderweg,” la terza via tra occidente e oriente, ha accompagnato tutta la storia tedesca e si è inverato nel modello economico condiviso tra i socialdemocratici e i cristiano-democratici di Angela Merkel. L’attacco della Russia all’Ucraina ha svelato la fragilità del disegno nato all’insegna dell’onnipotenza dell’economia. Una crescita fondata solo sull’export espone i produttori ai capricci dei mercati senza possibilità di intervento. A maggior ragione se i fornitori di materie prime sono all’estero. Una politica economica a senso unico senza avere una via d’uscita in caso di difficoltà esprime i limiti della classe politica e imprenditoriale tedesca.
Si conferma il luogo comune: fortissimi nelle battaglie per poi perdere le guerre. Dalle rovine dei grandi amori infranti rinasce ora un nuovo modello. Questa volta la proiezione è a ovest e a sud i nuovi punti cardinali dell’Europa post globale. A Berlino non si sono ancora conciliati con l’aggettivo. Sperano nella Germania fai da te. Ma i fatti parlano. Sulla sponda americana con l’amministrazione Biden gli spazi per le ditte europee si sono ristretti. Vedi per esempio i dazi sull’alluminio italiano. Gli Usa non demordono dall’”America first” a suo tempo lanciato da Trump. Per la Germania vuol dire perdere i propri campioni come sta succedendo per esempio con Linde, la più grande azienda di gas industriali al mondo, quotata a New York dopo l’abbandono di Francoforte.
Non resta quindi che l’Europa. E’ un percorso obbligato che la Germania seguirà con il proprio approccio usuale. Le idee abbozzate dall’opposizione della Cdu, presto di nuovo al potere, parlano di transizione verso una nuova Germania, più potente di prima. Ma questa volta Berlino non può prescindere dagli alleati europei, che sono il suo mercato interno. Bruxelles propone il ricorso al debito comune europeo. Proprio il contrario di quel che il governo tedesco predica con il bilancio in pareggio.
Ed è qui che si consuma la battaglia per la nuova Europa. Obiettivo di Ursula von der Leyen evitare di ripetere quanto fatto dal ministero tedesco della ricerca. In piena crisi energetica ha cancellato i fondi destinati ai progetti per le batterie di nuova generazione. Per amore di risparmio.
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