La Germania
in crisi
cambia
l’Europa

Nelle ultime settimane due notizie hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla Germania. La prima novità è tutta economica, perché ormai siamo dinanzi alla crisi di quella che fu “locomotiva” europea, in difficoltà in alcuni suoi settori cruciali, come la produzione automobilistica. La decisione della Volkswagen di chiudere alcuni impianti tedeschi è più che un segnale negativo.

Oltre a ciò dei tedeschi s’è molto parlato anche perché in quella che fu la Germania Est (in Turingia e in Sassonia) i partiti tradizionali sono usciti a pezzi, mentre s’è assistito al successo di AfD e Bsw. Il primo è un partito di destra e il secondo è di sinistra, ma entrambi esprimono una netta avversione per l’establishment, convergendo su una serie di temi: contrasto all’immigrazione incontrollata, contestazione della transizione verde, euroscetticismo, ecc.

Va detto che le difficoltà economiche hanno radici profonde. Anche se nel dopoguerra la società ha conosciuto una fase di ampia libertà economica, in particolare grazie alle scelte di Ludwig Erhard, in Germania l’economia è caratterizzata da una forte presenza pubblica, da logiche dirigiste, da un generoso sistema assistenziale e – negli ultimi tempi – anche da uno spiccato radicalismo ambientalista. Nel ventennio della Merkel molti s’erano illusi che tutto ciò potesse essere conciliabile con la salvaguardia della prosperità, ma ormai è evidente quanto fosse ingenua la convinzione che la redistribuzione non avrebbe avuto conseguenze sulla produzione, e che la transizione energetica potesse avvenire a costo zero.

Il voto nei due Länder orientali è allora un campanello d’allarme. Se tra Colonia e Francoforte, tra Amburgo a Monaco, c’è chi è disposto ad abbracciare una forma di decrescita più o meno felice, non è così nelle aree più depresse del Paese. Dove la vita rimane difficile e la disoccupazione è assai alta, la prospettiva di distruggere il presente per (forse) ridurre di una frazione di grado l’aumento della temperatura globale non è egualmente accettabile.

Non è un caso se ora anche le classi dirigenti, a Berlino, abbiano iniziato a mutare registro. Dinanzi alla possibilità che s’affermino ancor più movimenti venati da ideologie totalitarie (e nel passato la capitale tedesca ha conosciuto tanto il nazismo quanto il comunismo), quelli che fino a ieri erano obblighi imprescindibili non lo sono più.

Quando cambia la Germania, però, è l’intera Europa che muta; e uno dei punti di forza della propaganda delle opposizioni al governo tedesco attuale è la critica di quell’europeismo ingenuo che è persuaso che ogni centralizzazione del potere e delle decisioni sia positiva.

Semplificando (ma non troppo), i dati deludenti dell’economia tedesca in stallo e i voti usciti dalle urne hanno bocciato la retorica che anima il “piano Draghi”, ma anche molte altre prospettive tecnocratiche: si pensi, solo per fare un esempio, alle riunioni di Davos. Quanti hanno immaginato di rottamare le automobili a combustione interna e costringere a ristrutturare l’intero patrimonio immobiliare adesso fanno i conti con la realtà: perché l’economia ha le sue logiche e la società pure.

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