La Germania cambia alla ricerca di nuove vie

In una proiezione al 2028 l’Istituto per l’economia tedesca (IW) quantifica la riduzione del benessere dei cittadini tedeschi e europei per effetto dei dazi rispettivamente in 290 miliardi di euro per la Germania e 1.100 miliardi per l’Unione Europea. Non tutti però in Europa vengono colpiti in egual maniera. Il modello produttivo tedesco è fondato sull’export ed è quindi in Germania che le conseguenze si sentono maggiormente. La forza dell’economia tedesca è sempre stata percepita come un pugno in un occhio per gli anglosassoni. La Brexit nasce dal rifiuto di entrare in una comunità economica dove le regole vengono dettate da Berlino. I famosi cinque occhi («Five eyes») con i quali Usa, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda controllano le informazioni sensibili e le condividono, è un’alleanza anglosassone. Un’alleanza che non è certificata da alcun accordo internazionale. E questo ben prima che Donald Trump calcasse le scene della Casa Bianca. Il presidente democratico Barack Obama dovette ammettere che sì, anche il cellullare del cancelliere Angela Merkel era intercettato dalle postazioni collocate nell’ambasciata americana di Berlino. Irritazione della cancelleria, imbarazzo alla Casa Bianca ma poi tutto è finito lì. Donald Trump ha reso pubblico quello che prima era sotto traccia.

Il nuovo governo di Friedrich Merz si rende conto che per la prima volta la Germania non può più giocare la carta che era diventata un passe partout: primo Paese industriale nel mondo occidentale e potenza economica in grado di rivaleggiare con il potente alleato. L’ascesa al potere di Trump è il risultato della frustrazione dei ceti produttivi americani spiazzati dalla concorrenza cinese nelle produzioni a basso costo ma surclassati dai tedeschi nei prodotti di alta gamma. Hanno compensato in America con l’high tech e i cellulari di ultima generazione e poi con i satelliti, ma l’industria quella vera, fatta di acciaio e componentistica, l’hanno persa. Riportare l’industria a casa come vorrebbe Trump non è facile. Ridurre i dazi sulle automobili come sta facendo in questi giorni il presidente americano è la conferma che i prezzi della componentistica estera sono competitivi.

Sono pronti gli americani a lavorare con il salario di un loro collega messicano o cinese? La questione è aperta mentre certo è il risentimento per chi, come la Germania, è percepito come il vincitore occidentale della globalizzazione. Intorno alla Cina si cerca di creare un cordone sanitario. Chi commercia con Pechino subirà la scure dei dazi americani. Questa la reazione di Washington ai viaggi di Xi Jinping in Vietnam, Malaysia e Indonesia. Il presidente cinese offre scambi commerciali liberi senza imposizioni tariffarie. Con la Germania è più facile, tolta la leva del gas russo e gli sbocchi del mercato orientale, Berlino è impotente e sotto schiaffo del potente alleato. Si deve riarmare ma non ha ancora industrie in grado di produrre su larga scala, quindi comprerà americano e per il gas dovrà adeguarsi a quello liquefatto americano molto più caro di quello dei gasdotti russi. Ecco perché la nuova politica estera tedesca è costretta a far tesoro delle alleanze in Europa.

E soprattutto dell’Italia. Il nostro Paese è orientato all’export come quello tedesco e ha una struttura produttiva complementare a quella germanica. Vive quindi gli stessi problemi con una differenza: il governo italiano non ha tuonato come Merz contro gli americani e contro la nuova presidenza Trump. Il cancelliere in pectore spera di essere ricevuto a Washington ma sarà come andare a Canossa. Al momento Berlino non ha nulla da offrire. Mentre Meloni oggi è alla Casa Bianca e toccherà all’Italia rilanciare un dialogo che a Bruxelles e Berlino temono di non riuscire ad aprire.

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