La crisi climatica, giustizia in attesa

Il dilemma è chiaro e drammatico. Ma a Baku nessuno lo ha affrontato.Così per risolvere la crisi climatica anche oggi si decide domani. La Cop29 è fallita, come accade da almeno dieci anni a questi summit. Dopo la Conferenza di Parigi il piano scivoloso dei vertici sul clima si è fatto sempre più inclinato per un motivo semplicissimo: bisogna tirar fuori i soldi e tanti. Ma nessun Paese ricco intende aprire il portafoglio, perché nessun Paese ricco vuole cambiare il proprio modello di sviluppo e di conseguenza nessun Paese ricco permette che lo cambino i Paesi poveri. Il clima è prima di tutto una questione di giustizia. Oggi gli Stati del G20 controllano l’85% del Pil mondiale e sono responsabili dell’80% delle emissioni globali. Sono diventati così a colpi di colonialismo classico e neoclassico, perché non hanno mai abbandonato la strada maestra dell’«economia che uccide» (copyright Papa Francesco).

Poi ci sono gli altri che hanno due opzioni davanti: fare come noi oppure in modo diverso.

Nel primo caso, ammesso che arrivino al nostro sviluppo con le nostre stesse emissioni, il pianeta salterebbe in aria. Insomma tutti predatori e tutti morti. Nel secondo caso le cose si metterebbero meglio, ma non si può chiedere ai poveri di restare poveri. Né si può imporre di rallentare a chi non si è mai nemmeno affacciato al nastro di partenza e non ha né la lavatrice, né il gabinetto, né l’acqua potabile, né il frigorifero e neppure l’energia elettrica, per non dire di tutto il resto di cui noi abbiamo in vergognosa abbondanza.

Per noi è facile baloccarsi semanticamente con la retorica della decrescita. Per la più parte dell’umanità un po’ meno.

Dunque? La soluzione al dilemma sta nella scelta del lato giusto dello sviluppo, che non devono fare i poveri, ma i ricchi.

È l’unico modo per sopravvivere meglio e tutti insieme. La questione del clima non è più affare di ambientalisti radicalchic, ma è emergenza politica ed economica, argomento di giustizia planetaria. Noi dobbiamo rallentare, loro devono poter correre a condizioni diverse, che i ricchi devono pagare per rimborsare il debito ambientale che ha permesso a noi di avere la lavatrice e tutti gli altri ha imposto di restare inchiodati alla logica infinita e falsamente umanitaria del «modello in via di sviluppo». Il nodo irrisolto di Baku è solo questo, una montagna di dollari che i ricchi devono al Global South non per beneficenza, ma per riparazione. Secondo uno studio del Comitato di presidenza delle Cop occorrono 1.000 miliardi di dollari all’ anno dal 2030 e 1.300 dal 2035.

Ma perché l’impresa sia efficace dovranno essere finanziamenti pubblici a fondo perduto, gli unici che possono impedire alla ghigliottina del debito di abbattersi con ulteriore forza.

E qui tutti inciampano, poiché un conto è salvare il clima con una firma, un altro trovare i soldi. A Buku i leader mondiali non si sono visti. Il multilateralismo, modello cruciale in questi casi, è sparito da tempo e solo il Papa se ne duole. Così i negoziati risultano per nulla efficaci, saturi solo di retorica.

Ma a Baku si è visto anche altro con l’attivismo esasperato di migliaia di lobbisti del fossile e il silenziatore imposto ai movimenti della società civile. Gli obbiettivi degli Accordi di Parigi, cioè non arrivare ad un grado e mezzo in più rispetto al periodo pre industriale alla fine del secolo, sono stati superati quest’anno e una decisione su responsabilità e relative quote almeno d’ammenda erano attese dal summit. Ma la finanza climatica va bene se fa bene ai fondi di Wall Street, non cambia i modelli dell’ingiustizia economica e ambientale e non frantuma il delizioso intreccio tra ecologia e guadagno.

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