Quello varato in Consiglio dei ministri sarà l’ultimo Documento di Economia e Finanzia (Def ) stilato alla vecchia maniera. Una curiosità per addetti ai lavori, forse, ma attorno alla quale si sono gonfiate polemiche politiche di dubbia utilità. Manca la parte “programmatica” del documento, hanno notato le opposizioni, cioè quelle previsioni che incorporano gli effetti stimati delle politiche di bilancio di ogni governo. Ma davvero ciò basta a rendere il Def “monco” o “vuoto”? L’esecutivo ha risposto che se stavolta il Def contiene solo le stime “tendenziali” lo si deve al cambiamento delle regole di bilancio europee; dunque appuntamento rimandato al “Programma fiscale strutturale di medio termine”, cioè al nuovo Def, da inviare alla Commissione Ue entro il prossimo 20 settembre. Ma davvero basta tale rassicurazione per fugare ogni dubbio sulla politica economica dell’esecutivo? Fuor di retorica, i numeri comunicati dal governo ci restituiscono una fotografia abbastanza nitida del nostro Paese, una istantanea caratterizzata da luci e ombre. Partiamo dalle prime. Sicuramente una crescita del Pil che, seppure limata al ribasso dello 0,2%, rimane in aumento di un dignitoso 1% quest’anno, per poi salire al più 1,2% l’anno prossimo. Buone notizie anche dal fronte del mercato del lavoro, con un tasso di disoccupazione atteso in costante calo nei prossimi mesi, come peraltro certificato dall’Istat nelle scorse settimane. Il rapporto tra deficit pubblico e Pil, inoltre, continua – seppure lentamente - a calare, fino al 4,3%, dunque in linea con quanto scritto dal governo lo scorso autunno nell’ultima Nota di aggiornamento al Def. Tuttavia nello stesso Def non mancano le ombre, lo dicevamo. Quella più minacciosa è costituita dal livello dell’indebitamento del nostro Stato. Dal Def, infatti, emerge con chiarezza che il rapporto tra debito pubblico e Pil – una volta esaurito il sorprendente rimbalzo della nostra economia nella fase post Covid – riprenderà purtroppo a crescere. Dal 137,8% atteso alla fine di quest’anno passerà al 138,9% nel 2025, e poi addirittura fino al 139,8% del 2026. L’esecutivo ha offerto spiegazioni plausibili di simili andamenti. Sulla crescita che rallenta, per esempio, non può non pesare la volatilità del contesto internazionale, flagellato da conflitti bellici e instabilità geopolitica perfino alle porte dell’Europa. Quanto all’indebitamento che accelera, invece, il ministro dell’Economia Giorgetti ha parlato di un andamento «pesantemente condizionato dai riflessi per cassa del superbonus edilizio nei prossimi anni». Pensare che in questo caso l’esecutivo stia solo mettendo le mani avanti sarebbe legittimo, ma allo stesso tempo sbagliato. Appena due giorni fa, infatti, l’Enea ha calcolato che, al 31 marzo scorso, l’onere totale a carico dello Stato per le detrazioni maturate con il superbonus ha superato i 122 miliardi di euro. Stiamo parlando di una quantità di risorse pubbliche che solitamente si stanziano in ben cinque leggi di bilancio. Un fardello che non svanirà con uno schiocco di dita. Cosa fare, adesso, di questa fotografia? Sarebbe saggio non lasciarsi abbagliare compiaciuti dalle luci, né farsi immobilizzare dal timore che incutono le ombre. Continuare, dunque, a concentrare le poche risorse a disposizione in alcune priorità per la crescita: riduzione delle tasse in busta paga e sostegno alle famiglie, prima di tutto. Perseverare, dall’altra parte, in un’opera di efficientamento della spesa pubblica che, salvaguardando la Sanità e i suoi lavoratori, non abbia timore di scontentare qualcuno. È su come perseguire simili obiettivi che si dovrebbero confrontare dei partiti rispettosi dell’opinione pubblica e del bene comune.
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