La coerenza in politica nel bene e nel male

Alla fine, è tutta una questione di coerenza. Che però, almeno in apparenza, sta generando un bel pateracchio nel governo di centrodestra.

Eppure, la posizione assunta da Matteo Salvini in politica estera appare del tutto lineare. Vicepresidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture e leader della Lega, il “Capitano”, com’è noto, si è schierato — insieme, al, questa volta, suo sodale Giancarlo Giorgetti — contro l’idea di un’Europa armata per necessità (nel momento in cui gli Stati Uniti si sfilano dal loro storico sostegno), ma anche virtù (difendere la causa dell’Ucraina come simbolo dell’Occidente).

È altrettanto noto che Giorgia Meloni, presidente del Consiglio e leader di Fratelli d’Italia, e soprattutto Antonio Tajani, erede politico di Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia, la pensano in modo diverso. Il leader degli “azzurri” ha definito pur senza citarlo il movimento di Salvini come un partito di “Quaquaraquà ”.

Il primo elemento di coerenza e continuità riguarda il centrodestra nel suo insieme: una coalizione che, per tradizione, si presenta granitica alle urne salvo poi iniziare a sbriciolarsi una volta arrivata al governo. È un copione già visto. Dal primo esecutivo Berlusconi, fatto saltare dal fuoco amico della Lega (allora ancora “Nord” e nelle mani di Umberto Bossi), ai governi successivi ostacolati internamente da figure come Follini (Udc) e Fini (Alleanza Nazionale). Anche in questo c’è una forma di coerenza: salvo casi isolati, le fratture interne non hanno mai prodotto conseguenze politiche immediate. E, con ogni probabilità, non accadrà nemmeno ora. A meno che Salvini non decida di portare lo scontro fino in fondo.

Lo ha già fatto - con ben altro peso elettorale -nel governo gialloverde, dove era vicepremier con Giuseppe Conte. Allora puntava alle elezioni anticipate per capitalizzare il successo appena incassato alle Europee e ottenere i famosi “pieni poteri”. Ma Conte, con una mossa ispirata da Matteo Renzi, lo ha beffato innescando un ribaltone che ha portato alla nascita del governo Cinque Stelle–Pd. Difficile che Salvini ripeta oggi lo stesso errore, anche perché le condizioni politiche ed elettorali sono cambiate.

Cosa vuole, dunque, il “Capitano”? In coerenza con se stesso, prosegue la sua campagna elettorale in servizio permanente effettivo . Forse spera che, vestendo i panni del pacificatore in Ucraina e dell’amicone di Trump, possa accreditarsi come garante di stabilità e magari convincere l’inquilino della Casa Bianca a rinunciare ai dazi minacciati contro l’Italia. Un obiettivo che potrebbe piacere ai ceti produttivi del Nord, molti dei quali — alle ultime tornate elettorali — hanno traslocato nelle urne da Lega a Fratelli d’Italia.

E poi, sempre per restare in tema di coerenza, c’è la storica simpatia di Salvini per la Russia di Putin. Non è una novità. E non è l’unico precedente nella storia del Carroccio.

Nel 1999, durante la guerra del Kosovo, Bossi — allora dominus incontrastato della Lega — si recò a Belgrado per sostenere Slobodan Milosevic, mentre la Nato (Italia compresa) lo stava bombardando. C’è una differenza: Bossi non era al governo, lo era invece Massimo D’Alema, con il sostegno di Francesco Cossiga. Proprio l’ ultra atlantista Cossiga aveva spinto per l’intervento militare di un governo a guida post-comunista. Bossi, però, quella scelta la pagò cara in termini elettorali.

In definitiva, anche se può sembrare un paradosso, Salvini è coerente. Ma i distinguo in politica estera, soprattutto su un tema così delicato come il riarmo europeo e il conflitto in Ucraina, indeboliscono l’immagine del governo e ne compromettono l’affidabilità. In un contesto internazionale in fibrillazione, l’Italia dovrebbe esprimere una linea unitaria. Ma, si sa, in politica la coerenza è un pregio che spesso si paga caro.

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