Nell’ottobre del 2023 alla pregevole Galleria civica d’arte moderna di Torino erano aperte, in contemporanea, due mostre: al piano superiore, “Hayez. L’officina del pittore romantico” e a quello inferiore “Gianni Caravaggio. Per analogiam”. Una rampa di scale, forse due, bastavano a percorrere tutta la distanza che intercorre tra l’arte che, per estensione, potremmo definire “classica” e quella che passa per “contemporanea”. Nelle tele di Francesco Hayez, il visitatore trovava quanto, probabilmente, ancora oggi i più ritengono sia arte in senso stretto: un soggetto ben definito - sia esso un ritratto, una veduta, una scena dal contenuto emotivo o storico - e, soprattutto, l’indiscutibile perizia tecnica del pittore, abilissimo nel rendere con realismo una forma, una sfumatura di colore, la leggerezza di un drappeggio.
All’opposto, le opere di Gianni Caravaggio, quasi sperdute in spazi enormi, rifiutavano al visitatore qualsiasi concessione sentimentale e perfino di riconoscibilità attraverso la forma. Quando a una sagoma sarebbe stato istintivo attribuire un nome e una funzione, l’artista si preoccupava di collocarla fuori contesto, così che, privata di ogni definizione a priori, imponesse all’occhio del visitatore una ricerca nuova, ovvero la necessità di “vedere per la prima volta” un oggetto conosciuto.
La contemporaneità delle due mostre era insomma un’occasione per riflettere sul cambiamento di prospettiva intervenuto nell’arte in meno di due secoli: l’arte che enfatizza il conosciuto, rivestendolo di sentimento (quella di Hayez) e l’arte che respinge ogni contenuto preordinato, spingendosi oltre il limite del significato (quella di Gianni Caravaggio).
In quale punto di questa distanza si collochi la celeberrima banana di Cattelan, indivisibile ormai dalla “performance” del miliardario cinese Justin Sun che l’ha comprata per sei milioni di dollari per poi mangiarsela davanti a telecamere e giornalisti, non è facile dire.
La tentazione è di sistemare il tutto in quella sorta di corrente non ufficiale, ma neppure troppo difficile da distinguere, che nei suoi “Appunti d’arte” per questo giornale Giuliano Collina ha denominato “facilismo”. Un’arte che “dice” qualcosa sotto forma di avvenimenti, manifesti e provocazioni ma che, proprio per questo, diventa piuttosto monito civile o polemica sociale. L’arte, insomma, di Banksy e dello stesso Cattelan: facile da “leggere”, riprodurre, condividere su Instagram.
Distinguerla da ciò che propriamente dovremmo chiamare arte non è una mossa snob. Piuttosto, risponde alla necessità di riconoscere che se pure l’arte deve reagire ai tempi correnti, e addirittura farsi carico di rifletterli, con banane e provocazioni costosissime non ci riuscirà affatto.
Basta pensare a quanto sia diverso l’esempio di connessione con il reale operato a suo tempo da Andy Wharol e da Roy Lichtenstein i quali, accortisi che la gente viveva circondata da merce prodotta in serie, subendo il fascino della celebrità in uno scenario sociale sempre più bidimensionale, trovarono il modo ideale di rappresentare tutto ciò (la merce, la fama, la piattezza) senza per questo imporre a nessuno un messaggio o un giudizio.
Risultato che banane appese e mangiate non sembrano raggiungere, perché in tutta l’operazione il significato coincide con la banalità, il clamore con la superficialità e l’approfondimento con l’esibizionismo. Con il suo spuntino da sei milioni, Sun non ha neppure ottenuto quindici minuti di celebrità: in 900 secondi, oggi, si finisce più e più volte travolti dalla corrente del nulla.
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