Italia: come rilanciare la politica industriale

Negli ultimi due anni l’occupazione in Italia è cresciuta complessivamente di 847mila unità (+3,6%). È una buona notizia. Sono aumentati i lavori a tempo indeterminato e diminuiti quelli precari.  Ci si potrebbe accontentare perché un lavoratore occupato, anche se a basso reddito, è sempre meglio di un disoccupato. È però la qualità dei posti di lavoro che incide sulla crescita e fa la differenza fra un Paese con una produzione competitiva e una basata solo sui servizi. Il turismo per esempio è benvenuto, ma non deve essere la maggior voce trainante nell’economia di una nazione.

Il rischio è chiaro: si dipende dall’altrui disponibilità e dalle congiunture del momento. Tutti fattori sui quali pesano decisioni prese altrove. Ne nasce una dipendenza che pregiudica l’autonomia e segna la differenza fra Paese guida e Paese a sovranità economica limitata. La Francia, primo Paese per numero di turisti, quando l’industria è in crisi incarica lo Stato a sopperire alle difficoltà dei privati. Entra nell’azionariato delle aziende e vigila sul buon andamento della gestione. Primo obiettivo: rimanere competitivi e non pregiudicare le risorse industriali del Paese. L’intelligenza artificiale segna il discrimine fra l’era industriale classica e quella nuova che avanza. Diventa cruciale il valore aggiunto che ogni posto di lavoro crea.

Per l’Italia una questione strategica. La crescita di posti lavoro registrata in questi anni é trainata dai servizi e soprattutto dal turismo. Se il lavoro è povero le conseguenze sono duplici: una remunerazione bassa per i lavoratori e un riflesso sul sistema Paese che vede ridotti gli standard produttivi. Ma il problema italiano è che aumentano le ore di cassa integrazione. E sono quasi tutte in posti fissi di rami industriali qualificati che producono export. Un segnale. Proprio là dove si produce valore aggiunto si comincia a tagliare. Sono 350 milioni di ore di ammortizzatori sociali nei primi nove mesi del 2024, il 23,3% in più a confronto del 2023. La cassa integrazione ordinaria vede salire le ore autorizzate, su base annua, del 30%.

I settori dell’abbigliamento uniti a pelli, cuoio, calzature assieme al tessile sono i più colpiti. I francesi di Lvmh, per intenderci, quelli che hanno fatto man bassa sulle firme italiane del lusso, da Bulgari a Fendi e Loro Piana, hanno anche loro un calo del 2% di fatturato. Un momento congiunturale, non un segno di ridotta competitività. Se la Cina non tira, se le guerre imperversano cala anche la domanda di lusso. Un dato fisiologico. Ma se la meccanica segna anch’essa un aumento del 48% di cassa integrazione deve suonare un campanello di allarme. Ne va dei posti di lavori in un settore cruciale.

Difenderli non basta. Occorre rilanciare la politica industriale. La crisi dell’ automotive è un’opportunità per dare seguito a quello che il mercato già chiede. La formazione professionale. Dall’indagine Confindustria sul lavoro 2024 emerge che due aziende su tre non trovano personale tecnico qualificato. Difficoltà soprattutto nell’ambito della trasformazione digitale e nel settore industriale. La crisi dell’auto è un dato di fatto che prescinde dalle nazionalità. In Germania attualmente le grandi industrie come Volkswagen, ThyssenKrupp, Basf Bosch, per indicare gli esempi più eclatanti, licenziano e chiudono siti produttivi. Al contempo però si registra una forte richiesta di forza lavoro. Sono un milione e 800mila i posti vacanti. Sono occupazioni ad alto valore aggiunto, quelli della transizione verde, dei semiconduttori, della tecnologia di innovazione, dei robot e della guida automatica senza conduttore. I settori che renderanno l’industria automobilistica competitiva. Ed è lì che si gioca il destino industriale dell’Italia.

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