Il nesso fra governo dell’Intelligenza artificiale e buona politica sta nella difesa della dignità della persona: «Parlare di tecnologia è parlare di cosa significhi essere umani e quindi di quella nostra unica condizione tra libertà e responsabilità, cioè vuol dire parlare di etica».
Umanizziamo le macchine perché sia vero sviluppo, perché si crei una rinnovata saldatura fra buone pratiche pubbliche, pace e giustizia.
Papa Francesco, nel suo intervento al G7 (il primo di un Pontefice a questo genere di summit), offre il suo sguardo sul futuro dell’umanità senza indietreggiare dinanzi ai Grandi della Terra, rimandando alla questione delle questioni: quella antropologica. Riflessioni già contenute nelle encicliche «Laudato si’» e «Fratelli Tutti», nell’esortazione apostolica «Laudate Deum», e riaffermate in questi anni di magistero, ma ora rilanciate al cospetto di leader mondiali affaticati e mentre un’attualità stressata da guerre e crisi di ogni genere non promette nulla di buono. In entrambi i mondi, quello artificiale-generativo e quello affidato alla creatività umana, il paradigma tecnocratico sembra esaltare la potenza di dominio oltre ogni immaginazione.
Tornano i fondamentali del pensiero bergogliano: la violenza di chi provoca le guerre mostra l’arroganza di coloro che si ritengono potenti davanti agli altri uomini, mentre «condanneremmo l’umanità a un futuro senza speranza se sottraessimo alle persone la capacità di decidere su loro stesse e sulla loro vita condannandole a dipendere dalle scelte delle macchine».
Un monito, il suo, ancorato ad un punto essenziale: nessuna innovazione è neutrale. Non si tratta evidentemente di scendere dal treno della più sofisticata modernità, tutt’altro, ma bisogna interrogarsi: la Ia avrà il sopravvento sull’uomo?
Ogni fase evolutiva della storia ha creato progresso e derive pericolose: tocca all’uomo, però, decidere in un senso o nell’altro. Quella che il francescano Paolo Benanti, fra i massimi esperti, ha definito la quarta rivoluzione industriale è destinata a cambiare il modo con cui faremo tutte le cose. Umanizzare la tecnica significa cognizione di ciò che è bene e male: si chiama etica fondata sui valori, non su quelli numerici dell’algoritmo. Per questo strumenti come la Ia vanno indirizzati al bene comune, tanto più che la tecnologia, richiama il Papa, «rappresenta sempre una forma di ordine nelle relazioni sociali e una disposizione di potere, che abilita qualcuno a compiere azioni e impedisce ad altri di compierne altre». Ecco l’aspetto insidioso, che potremmo definire la questione democratica. Perché ci sono esiti paradossali: tecnologie pensate dalla cultura libertaria della Silicon Valley per essere inclusive si sono invece rivelate funzionali a una concentrazione di potere e anche a forme di discriminazione.
Le grandi piattaforme sono cresciute in un ambiente favorevole senza alcun vincolo e si sono poi espanse a livello globale secondo canoni che esse stesse hanno definito. Un business e un tecno-potere che superano quelli di singoli Stati. Nelle società dell’individualismo estremo e in un mondo fatto di conflitti ibridi, in cui pare scomparso il confine tra pace e guerra, il ritorno all’umano diventa una necessità esistenziale che richiama in servizio anche la buona politica. Siamo immersi in una crisi costituente dell’ordine internazionale, ma limitarsi a descrivere il declino della nostra parte di mondo solo con la geopolitica è riduttivo, là dove invece - avverte Bergoglio - andrebbe ricercato nella perdita di valore assegnato alla persona umana. Una categoria fondamentale dell’Occidente. Restiamo umani.
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