Innovazione Una sfida da vincere senza i dazi

Dopo averlo preannunciato il 12 giugno, la Commissione europea ha ufficializzato l’imposizione di dazi – cosiddetti “compensativi” - sull’importazione di auto elettriche cinesi. Un provvedimento che scatta perché, secondo Bruxelles, la catena del valore delle auto elettriche cinesi ha beneficiato di sussidi iniqui da parte del governo di Pechino che spiazzano economicamente i concorrenti del settore nel nostro continente. Si tratta di dazi provvisori che sono stati decisi al termine di una indagine durata nove mesi e che, se confermati il prossimo ottobre con una decisione a maggioranza degli Stati membri dell’Unione, saranno applicati per cinque anni. La tariffa avrà un impatto differenziato sui diversi produttori «made in China»: si oscilla dal 17,4% sui veicoli del colosso BYD (marchio protagonista in queste settimane di una sponsorizzazione senza precedenti per gli Europei di calcio) fino al 37,6% per le Case che non hanno collaborato agli accertamenti.

La Repubblica Popolare, attraverso il ministero per il Commercio, ha espresso la propria «forte opposizione» alla decisione. La Camera di Commercio cinese nell’Ue ha parlato di «misura protezionistica motivata da fattori politici». Anche la tedesca Volkswagen, secondo produttore di auto del pianeta, ha definito «dannosa» la «tempistica della decisione europea», aggiungendo che i dazi «in genere non sono adatti a rafforzare la competitività dell’industria nel lungo termine».

Per valutare la decisione europea, come anche le critiche appena elencate, conviene assumere una prospettiva che non sia schiacciata temporalmente solo sulle ultime settimane e che non sia confinata al nostro continente. Il modello di sviluppo dell’auto elettrica cinese si fonda infatti da molti anni sul sostegno pubblico. Le autorità di Pechino sono state abili a concentrare per tempo risorse pubbliche ingenti per contribuire allo sviluppo di produttori locali. Secondo le recenti stime del think tank statunitense Center for Strategic and International Studies, dal 2009 al 2023 il governo cinese ha investito direttamente risorse per un valore di 230,9 miliardi di dollari Usa nel comparto, con una impennata negli ultimi anni, tra sconti alla vendita per i clienti cinesi, sostegno alla ricerca e credito a tassi agevolati per le Case nazionali. Una stima approssimata per difetto perché non tiene conto delle agevolazioni erogate dalle autorità locali e dei sussidi pubblici destinati ad alcune componenti specifiche della catena del valore, come la produzione di batterie elettriche.

Se dunque è difficile dubitare della fondatezza dell’accusa europea di concorrenza sleale da parte dei produttori cinesi, semmai una critica che si potrebbe muovere a Bruxelles è quella di essersi mossa in ritardo e con una qualche arrendevolezza. L’Unione europea – nel settore automotive - per anni ha ecceduto nel dirigismo e nell’iper-regolamentazione ammantati di ambientalismo, scoraggiando chi voleva continuare a investire e produrre qui, mentre i grandi player tedeschi hanno preferito investire e aprire fabbriche in un mercato decisamente più vasto e promettente, quello cinese, con meno vincoli ambientali, per arrivare perfino a costruire lì modelli da esportare... in Europa! (E così oggi si spiegano certi timori reverenziali tedeschi nei confronti della Cina).

D’altronde non dai soli balzelli può arrivare la risposta europea alla strategia di penetrazione cinese dei nostri mercati. L’Unione deve tornare a essere un luogo in grado di generare innovazione, di accogliere attività industriali, e deve intensificare il libero scambio con il resto dell’Occidente che sceglie di giocare secondo le regole di mercato. È tempo di rifletterci in vista del prossimo bilaterale della premier Meloni con il presidente Xi Jinping.

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