Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io. Questo è il memo che i politici italiani non dovrebbero mai dimenticare. I pericoli maggiori ad ogni esecutivo sono venuti, non dai nemici, ma dagli amici. Così è sempre stato nell’Italia liberale, quando governi in difficoltà convocavano elezioni anticipate per rafforzarsi e, appena rafforzati, cadevano per mano dei loro supporter. Stessa regola è valsa nella Prima e, non di meno, nella Seconda Repubblica. Persino Mussolini è caduto per mano dei suoi. Caso più unico che raro di una dittatura affossata da un rivolgimento dei fedeli dell’autocrate. Non è servito a molto nemmeno dar vita a quel simulacro di bipolarismo che stiamo sperimentando da trent’anni a questa parte, annunciato come il toccasana per ottenere quel bene qui da noi sconosciuto della stabilità di governo. Dal 1994 ad oggi, i premier che non sono riusciti a completare la legislatura (Berlusconi nel 1995, Prodi nel 1998 e nel 2008) l’hanno dovuto proprio allo sgambetto di un partner di maggioranza (la Lega nel primo caso, Rifondazione comunista e Udeur negli altri due).
Lo stesso spettro agita oggi i sonni delle leader dei due poli. La Meloni da nessun’altra parte deve temere di ricevere uno sgambetto se non dai suoi due junior partner, la Lega e FI. Analogamente la Schlein, se non riuscirà a varare il campo largo, sarà per renitenza di qualche fratello/coltello (Conte?). Insomma, come sempre è dall’interno delle due coalizioni concorrenti che viene la vera minaccia. Le possibili loro faglie si sono ormai evidenziate. A destra, è la sfida innestatasi tra Lega e FI che mette in tensione la coalizione. Lo si è ben visto in settimana. Il governo è finito in minoranza per ben due volte. Peraltro - ma la cosa è doppiamente significativa - su una questione minore, segno che si cercava il pretesto per differenziarsi. Motivo del braccio di ferro innescatosi, la richiesta leghista di una decurtazione di 20 euro, da 90 a 70, del canone Rai. Nessun pericolo per la tenuta della maggioranza, si sono affrettati a rassicurare gli autori della zuffa. E c’è da crederci. Non perché ci sia da far affidamento sui loro buoni propositi, ma perché c’è da far conto sul fatto che sanno far bene i loro interessi. In politica vale la regola: chi rompe paga. Gli elettori puniscono chi si macchia di convocazioni anticipate delle urne.
Anche sul versante delle opposizioni, con la conclusione dell’Assemblea costituente del M5S s’è sanzionato che il partito di Conte ha messo un’ipoteca sulla formazione di un’alleanza di sinistra, cui la Schlein ha affidato le chance del campo progressista di tornare al governo. Non si sa come andrà a finire la bagarre che scuote il movimento ex grillino. Su un punto però esso ha fatto grande chiarezza. Ha benedetto la sua scelta di campo alla fonte battesimale di un voto democratico: sarà sì progressista, ma indipendente. Un proposito che suona come un’aperta sfida al Pd. L’”avvocato venuto dal popolo” promette: ci collochiamo a sinistra, ma non vogliamo fare la fine dei cespugli di cui il partito dominante dello schieramento progressista è uso attorniarsi. Puntualmente, ai propositi ha fatto seguire i fatti. Al momento dell’insediamento del secondo governo von der Leyen gli europarlamentari del partito che fu di Grillo hanno sparato ad alzo zero contro la nuova Commissione europea, in aperta rottura con i promessi compagni di cordata del Pd. Bisogna essere degli incalliti ottimisti per concludere con Mao The Tung che se «grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente».
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