La notizia arriva dalla Scandinavia, dove le notti sono lunghe e il giorno breve, brevissimo anzi, ma mai quanto la vita lavorativa che lassù, oggigiorno, la gente sogna per sé. A 40 anni, così si legge, gli scandinavi vorrebbero andarsene in pensione. A prima vista, chi li può biasimare? Si parla di un’età ancora giovanile, oggi più che nel passato, e ritrovarsi con il corpo pieno di vigore e tanto tempo per le mani sembrerebbe una condizione benedetta, certamente invidiabile.
Il problema - e in Scandinavia lo sanno bene proprio per via dell’alternanza squilibrata tra buio e luce - è che questo vecchio mondo gira sempre nello stesso modo e se qualcosa sembra troppo bello per essere vero probabilmente non è né vero né bello. E infatti presto si è scoperto che l’idea di fare i pensionati a 40 anni porta con sé più disastri che benefici. Primo fra tutti, quello economico. Seguono a cascata quelli politici, sociali e, per ultimi ma non ultimi per importanza, quelli che oseremmo definire esistenziali.
Il sogno della pensione a 40 anni, per quanto largamente teorico, molto discusso nei social ma per ora raramente praticato nella realtà, si basa su un acronimo: Fire. In inglese vuol dire “fuoco”, si sa, ma, spacchettato, sta a significare “Financial indipendence, retire early”, ovvero “Indipendenza finanziaria, pensione precoce”. Fire è infatti un piano pensionistico fai-da-te. In sostanza, l’aspirante pensionato dovrebbe risparmiare il più possibile durante gli anni di lavoro (fino al 75% del reddito), per poi investire parte del capitale così accumulato in modo da incrementarlo rapidamente e conquistare la possibilità, a 40 anni o poco più, di campare di rendita.
Il sistema è puramente individualistico e dunque perfettamente capitalista. Si potrebbe dire anzi che scardina il sistema capitalistico impiegando i suoi stessi mezzi. Un sistema tanto individuale da non curarsi per nulla delle conseguenze del suo agire sulla collettività. Nel caso della Scandinavia, una larga applicazione del piano Fire manderebbe in crisi il tradizionale welfare nordico, sottraendo allo Stato quelle risorse che poi lo Stato stesso rimette in gioco assicurando servizi per tutti. Fire sarebbe dunque un sistema pericoloso perché squilibrato: chi guadagna tanto può risparmiare parecchio assicurandosi una rendita alta, lasciando gli altri nelle mani di un welfare per forza di cose impoverito.
Per fortuna, come detto, di Fire si parla molto ma almeno per il momento lo si applica poco. Il fatto che il sogno della baby pensione sia così accarezzato, coccolato e ambito induce tuttavia alcune riflessioni. Se è vero che il lavoro è – da sempre – un fardello sulle spalle dell’umanità, bisogna d’altro canto anche ammetterlo tra le poche cose in grado di dare un senso alla nostra esistenza. Che oggi molti coltivino il desiderio di liberarsene il più presto possibile (e qui la Scandinavia fa da esempio, non da eccezione) farebbe pensare che una parte del lavoro – quella legata alla conferma delle nostre abilità, alla misura della nostra capacità di sacrificarci, all’opportunità di affinare talenti e di ampliare conoscenze – è da considerarsi defunta, sparita, culturalmente soffocata. La ragione? Un eccesso di capitalismo mordi-e-fuggi? La mancanza di garanzie e stabilità? O forse il dominio della cultura legata all’intrattenimento, che incoraggia la gratificazione rapida, a portata di mano, svicolata da fatica e responsabilità?
In attesa di trovare la risposta giusta, si può almeno dire che la pensione a 40 anni non è giustificata dal bisogno (e dal diritto) al riposo in età avanzata, ma dal desiderio, piuttosto inquietante, di sottrarsi al mondo e ai suoi meccanismi, dal rifiuto delle sfide e dei rischi. All’inseguimento, pare, di una condizione forse non ben definita ma che gli aspiranti baby pensionati in mancanza di meglio non esiterebbero a chiamare “libertà”. E che invece assomiglia a un limbo sconfinato nel quale l’ozio non è definito dal lavoro, il riposo dalla fatica e il guadagno dall’intraprendenza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA