La sinistra italiana è una roba davvero speciale: mette sempre di buonumore. Quando tutto gira storto, l’autostima precipita, l’inanità dell’essere si squaderna davanti agli occhi manifestando il mondo per quello che è - un inferno popolato da anime tormentate e da demoni -, quando tutto sembra essere perso, sciupato e vilipeso, basta un’occhiata alle cronache dei palazzi, delle piazze, dei tic e dei birignao dei progressisti progressivamente progressivi e si capisce, con sollievo, che nell’universo c’è sempre qualcuno conciato peggio di te.
É vero che quando uno è disperato si attacca a qualsiasi cosa, ma bisognerebbe sempre evitare - almeno per il rispetto dovuto a una storia tragica ma nobile - di rendersi ridicoli. Dopo una certa età ognuno è responsabile della propria faccia, diceva Camus. Ma anche delle proprie sceneggiate circensi, verrebbe da aggiungere, visto che, a proposito della crisi greca e della sua analisi, negli ultimi giorni ci sono stati regalati momenti talmente spassosi da indurre qualche buontempone a porre un interrogativo fondamentale: “E adesso Fassina e D’Attorre dove passeranno il prossimo weekend?”. Domanda centrale del dibattito politico, perché la transumanza dei mille liderini della sinistra radicale, podemos e we can ad Atene - una specie di eroica chiamata alle armi in stile guerra civile spagnola, con Piccolo e Baricco al posto di Hemingway - per sostenere, magnificare e glorificare le gesta della rivolta greca nel nome della libertà dei popoli contro la tracotanza tedesca tecnocratica e trilaterale, è uno di quegli affreschi di costume nel quale demagogia stracciona, ideologia cheguevarista e grottesco sessantottardo si sono fusi in un unicum davvero speciale. E che toni. E che pigli. E che chiome scarmigliate al vento. E che parole definitive. E che ritratti del conducator invincibile e di questa comunità fiera e mai doma. E che squarci di futuro su un’Europa finalmente solidale, condivisa e attenta ai bisogni dei poveri e dei diseredati. Poi, data una lettura al pesantissimo piano di tagli e tasse proposto da Tsipras all’Europa in cambio del prestito da cinquanta miliardi, che sembra fare carne di porco dell’esito del voto referendario, sono partite le risate. Risate omeriche, appunto.
Ma non è questo il tema. Sia perché non è affatto detto che la giravolta del leader greco per fregare i propri elettori e i sostenitori di mezzo mondo non possa essere seguita da un’altra giravolta a fregare l’Europa, una volta ottenuti i soldi in prestito. Il personaggio è furbo, svelto e inaffidabile, come quasi tutti i politici di razza, e quindi questo lo valuteremo solo nelle prossime settimane. Il punto vero è che dovremmo smetterla di massacrare la sinistra per la sua idolatria nei confronti del capo di Syriza. Ma, insomma, che c’è ancora da ridere di questi qui del bisogna riscoprire la lotta antagonista e anticapitalista e mondialista e giù le mani dal proletariato e giù le mani dal sindacato e giù le mani dagli eroici compagni del pubblico impiego e giù le mani dalle baby pensioni e discontinuità e radicalità e solidarietà e collettività e criticità, con tutto il loro bagaglio di sociologismo d’accatto, di ribellismo da catasto incarnato dall’armata Brancaleone di sindacalisti pulciosi, doppiomoralisti col posto fisso, distaccati del ministero, rivoluzionari della macchinetta del caffè, santoni della decrescita felice. Il problema non sono loro e a quale altro fenomeno da baraccone venezuelano, cileno o patagonico si attaccheranno per sostenere la battaglia a difesa del loro piccolo bunker da travet privilegiati.
Non sono loro il problema. Il problema sono gli altri. Perché dopo aver sentito i sedicenti leader della nuova destra italiana straparlare di Grecia e di Europa con certi toni da suffragette di fine Ottocento o da sansepolcristi, da reduci di Salò con le pezze nel sedere e con un tale trionfo di banalità socialisteggianti sui poveri greci e sui tedeschi cattivi e su euri e dracme e fiorini e marenghi e dobloni e difese ridicole, patetiche, grottesche dei più frusti e vetusti e indifendibili carrozzoni del welfare parassitario che hanno distrutto l’economia occidentale, verrebbe da alzarsi in piedi e domandare: scusate, ma c’è ancora qualcuno, in questo paese dei datteri e dello zafferano, che si ricordi di essere di destra? E sa cosa significhi questa parola? E che conosca le basi culturali, storiche ed economiche su cui si costruisce una politica alternativa allo straccionismo sinistroide e al contempo fortemente correttiva del tecnicismo e del rigorismo troppe volte ottuso dell’Unione europea? Qualcuno dei nostri mirabolanti statisti emergenti del centrodestra che, guarda caso, iniziano a piacere così tanto ai meglio commentatori della nostra meravigliosa categoria, lo sa che la destra – che in certi paesi è pure una roba seria, incredibile… - non si esaurisce certo nel dagli al negro, nel dagli al rom e nel dagli all’euro, che quando c’era la lira eravamo tutti ricchi e felici? La felpa di questo qui è la stessa roba della camicia bianca di quello là o del loden di quell’altro ancora. Una furbata scenografica con la quale la si dà a bere ai tordi e ai faciloni, non certo a quelli che hanno minimamente chiaro quali siano i nodi drammatici da sciogliere prima di andare definitivamente a fondo.
La verità è che Tsipras piace a tutti – dalla destra alla sinistra fino a Grillo – perché la classe politica di questo paese, da sempre, non ha alcuna cultura liberale e alcuna cultura di impresa e che quindi tutti quanti, nonostante le baruffe e gli insulti in parlamento, in televisione e sui giornali, si trovano sempre d’accordo nell’utilizzare lo stesso astrolabio che indica l’unica linea politica nazionale: più Stato, più spesa, più tasse, meno mercato, meno merito, meno concorrenza. Ed è per questo che, chiunque vinca, le cose non cambiano mai. Altro che Grecia: è tutta la vita che si gioca ai Tsipras, da queste parti.
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