Immigrati: basta simboli, ora serve una politica

Non so dire quanti siano i “giudici comunisti” nemici della Patria. Di certo è statisticamente interessante che in questo momento siano tutti quelli che si occupano di immigrazione. Chissà, se domani i giudici tributari dovessero pronunciarsi contro dei provvedimenti fiscali del governo e a favore dei diritti di singoli cittadini, potrebbero diventare “comunisti” ad honorem.

Intanto però, alla ricerca di un giudice “buono”, il governo propone una modifica legislativa in materia di immigrazione: per i casi dei migranti trattenuti e sottoposti a procedura accelerata di rimpatrio, secondo un emendamento inserito in sede di conversione di un decreto-legge, la competenza passerebbe dai giudici di tribunale alle corti d’appello.

Le corti d’appello giudicano in secondo grado, con tempi e modi diversi dai tribunali di primo grado, spesso con carenze di organico; nelle corti d’appello non ci sono magistrati specializzati in materia di immigrazione.

Considerato che, trattandosi di una privazione di libertà dei cittadini stranieri “trattenuti” senza avere commesso alcun reato, un giudice deve intervenire entro quarantotto ore, questo cambio di competenza, come qualsiasi giurista pratico (e forse ogni cittadino informato) può prevedere, provocherà un probabile caos organizzativo.

È difficile dire, anche alla luce del succedersi di provvedimenti poco funzionanti, se il governo ha chiara la situazione. È evidente però che sulla deportazione dei migranti oltre confine c’è un grosso investimento politico (in termini simbolici, perché mentre qualche decina di fuggiaschi da paesi sicuri o forse non sicuri andrà in Albania per qualche giorno o qualche mese, in decine di migliaia continueranno a sbarcare a Sud e decine di migliaia a entrare dalla frontiera Est).

Ma la realtà è irriducibile a quell’investimento politico simbolico. A meno che si voglia arrivare a una situazione in cui dei diritti dei cittadini – italiani o stranieri – deciderà un “signore e padrone” e non un potere dello Stato secondo regole oggettive e garantite.

Certo l’investimento politico simbolico successivo a quello (possiamo dire mal riuscito?) sui campi d’Albania consiste nell’accusare i giudici di antipatriottismo e soprattutto di compromissione della sicurezza dei cittadini.

Ai cittadini, però, andrebbe chiarito che il trasferimento all’estero e la procedura accelerata non riguardano lo straniero ubriaco che incrociano sotto i portici, o quello che dorme sulle panchine, e nemmeno quello che ruba nei supermercati, provocando la sua insicurezza: ma riguarda un cingalese, un egiziano, un siriano, che domani avrebbero sfornato le sue pizze, si sarebbero sporcato di terra e di cemento per le sue strade, avrebbero raccolto la verdura che ha in tavola.

Quello che gli sfuggiti ai campi d’Albania forse continueranno a fare, e forse in nero, se dai simboli non si passerà a una politica dell’immigrazione.

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