La recente Assemblea dell’ABI si può dire che non abbia fatto notizia, ma questo è un bene.
Il plenum della finanza italiana ha ascoltato i discorsi del Presidente Patuelli, del Governatore Panetta e del Ministro Giorgetti in un clima di composta e unanime condivisione. Un incontro istituzionale severo e sereno.
Sembra routine, ma proprio qui sta la notizia buona. Non è così lontana l’epoca in cui era esile il confine tra cronaca finanziaria e cronaca nera, quando attorno all’1% dell’intero sistema si registrarono macroscopiche speculazioni della cattiva politica.
Va preso atto che, dopo almeno un decennio difficile – Covid compreso – c’è qualcosa che funziona meglio, in un panorama nazionale con tanti problemi. Se il Governatore della Banca d’Italia Panetta si lascia andare in un giudizio positivo sulla solidità delle banche , che “rappresenta un punto di forza per l’intera economia italiana”, prendiamone atto con piacere.
La cosa più importante è poi che il consolidamento del sistema, è avvenuto dentro una profonda trasformazione del modo di fare banca. Il cittadino lo vede quando, sempre più raramente, entra in Filiale per avere consulenza, non per cambiare un assegno. Non è stato facile, e il merito è sicuramente del polso fermo di Francoforte, delle nuove anche se pesanti regole sistemiche, ma anche di una mentalità “politica” che nella gestione bancaria (e nelle rappresentanze sindacali) ha lasciato emergere innovazione e coraggio.
Attrezzandosi alla sfida della modernità, le banche hanno vinto una battaglia che un tempo sarebbe stata impensabile: quella di molti anni consecutivi di tassi zero della BCE e addirittura negativi per i depositi delle banche in quella centrale. In questo quadro inedito si sono tuttavia fatti utili notevoli, segno di una gestione davvero imprenditoriale, pur con un prelievo fiscale certamente rilevante, frutto di stratificazioni talora emotive.
Proprio l’ABI, con duttilità politica, ha evitato il tradursi in imposte ingiustificabili, anche costituzionalmente, della demonizzazione dei cosiddetti “extraprofitti”, frutto avvelenato del capitolo bancario del populismo, e vinto la controversia europea sul ruolo dei fondi interbancari di salvaguardia, pilastro essenziale di una unione bancaria UE ancora purtroppo da definire.
Argomenti solo accennati nell’Assemblea annuale, ma diciamo non estranei alla conferma per la sesta volta del presidente Antonio Patuelli, che ha al suo attivo anche il recupero a bordo della prima Banca italiana, Intesa San Paolo. Poteva capitare nella casa del credito quello che è accaduto nell’industria con l’uscita di Fiat o in altre associazioni con l’uscita delle aziende leader. Qui è oggi tutto ricomposto. L’influente Carlo Messina, che aveva addirittura concorso a determinare la scelta del nuovo presidente di Confindustria, è oggi nuovamente al fianco di Patuelli con uomini e donne dell’istituto.
Tutto bene, dunque? Fosse vero, visto che i problemi aperti tra la società italiana e le sue banche sono ancora tantissimi, a cominciare da un dato quasi sociologico, e cioè che la maggiore efficienza e la grande dimensione allentano un legame con famiglie e imprese che è essenziale, ma è anche una grande occasione per un sistema, quello cooperativo, che è grande, grazie alla legge Padoan, ma piccolo e diffuso al tempo stesso.
C’è poi la strisciante questione del risiko bancario ancora da sistemare, con un Monte Paschi ancora parzialmente in mano allo Stato, che lo ha salvato con soldi pubblici, e deve ora almeno in parte recuperarli.
Il Presidente Patuelli, ha auspicato per il futuro banche che a suo avviso già ora sono “tutte in concorrenza, sono e saranno sempre più sostenibili, vigili verso ogni rischio per la salute e per l’ambiente, consapevoli, trasparenti, veloci, interattive ed umane”.
Vien da dire di nuovo: fosse vero. Sarebbe il segno di un Paese che almeno qui matura.
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