Il ritorno di Trump alla Casa Bianca pone una serie di incognite interne e globali, con effetti sul mondo che c’è e che verrà, ricordando però che gli americani non eleggono il “presidente del mondo”, ma semplicemente il presidente che promuova i loro interessi.
Oggi più di ieri. Un successo (in pratica un referendum su di lui) oltre misura per il candidato di un partito repubblicano rimodellato a propria immagine e somiglianza e una pesante sconfitta per la democratica Kamala Harris: voto dei grandi elettori, quello popolare, conquista del Senato e, forse, della Camera. Un blocco sociale (ricchi, bianchi poveri, latinos) che riunisce sotto la stessa bandiera vincitori e vinti della globalizzazione. In più, in prima fila, Elon Musk, l’avanguardia assai controversa di una tecnocrazia anarco-conservatrice. Un vasto potere, dunque, fra esecutivo e legislativo, pur dentro un sistema istituzionale fatto di “pesi e contrappesi”, ma in una società fratturata e dallo sguardo all’indietro. Se la prima presidenza di Trump non può essere rimpianta, quella che inizia il fatidico 6 gennaio promette “una nuova età dell’oro”. Vedremo: l’uomo è imprevedibile e nessun inquilino della Casa Bianca è riuscito ad attuare tutto ciò che aveva annunciato. A volte meglio così. Un mondo intrattabile richiede leader che sappiano trattare con il senso della misura.
La nuova Amministrazione appare più omogenea e ideologicamente più radicale rispetto a quella del 2017, con una differenza: allora il partito repubblicano esisteva nelle sua identità storica, cercando anche di contenere gli eccessi del tycoon. Quel partito, come l’abbiamo conosciuto, non c’è più. Il primo mandato ha stressato l’Europa, poi è stato il turno di Biden l’”amico ritrovato”, e lo scontro è rientrato. Il secondo giunge in una fase più tesa: guerra in Ucraina e a Gaza, fibrillazioni nella Nato, contenzioso economico con la Cina e con ricadute sul Vecchio continente per dazi e protezionismi.
Il ciclone Trump è nato nell’anno della Brexit e da quel tempo sovranismi e simili sono transitati dalla protesta chiassosa alla fase di lotta e di governo nelle istituzioni. Potrebbe esserci un rinnovato effetto domino, nel senso che i veti dei sovranisti europei (vedi l’entusiasmo di Orban e non solo) troverebbero una sponda a Washington. Le reazioni nel mondo replicano le fratture geopolitiche fra l’ordine liberale e chi, quel mondo, lo vede in decadenza. Zelensky non può essere entusiasta, perché gli aiuti all’Ucraina (dopo i 60 miliardi di dollari con Biden) non sarebbero più un fatto scontato: Trump dice di inseguire la pace, ma – si teme – a scapito di Kiev e a vantaggio del Cremlino. I toni a Mosca e Pechino paiono calibrati. Putin non s’è affrettato a congratularsi con il nuovo presidente. Le parole di Ursula von der Leyen appartengono al galateo diplomatico. Germania e Francia costrette a far buon viso, quando c’è, a cattiva sorte. Netanyahu pensa di avere le mani libere. Quali saranno le relazioni internazionali con un’America intenzionata a tornare grande in modalità assertiva e unilaterale? Da Obama in poi Washington vuole ridurre il proprio impegno nel mondo per concentrarsi sull’area del Pacifico nell’antagonismo con la Cina e sui problemi domestici.
Dem e repubblicani la pensano alla stessa maniera su molti temi, cambiano però i modi di porsi. Il ritiro dall’Afghanistan, concordato da Trump con i talebani e gestito rovinosamente da Biden, indica una precisa deviazione dall’internazionalismo americano, corretta , ma non smentita dal sostegno all’Ucraina e dall’attivismo diplomatico in Medio Oriente. Gli Stati Uniti restano comunque il perno di un sistema mondiale al quale aderiscono 60 Paesi alleati. Una potenza militare, dollaro, valori, scienza e tecnologia. L’economia è (statisticamente) in ottima salute, ma il debito è circa il 100% del Pil e il deficit al 7%. I tagli fiscali annunciati da Trump sono molto costosi. L’aumento dei dazi sui beni e servizi importati (da un minimo del 10% al massimo del 60% applicato alla maggior parte dei prodotti cinesi) innescherebbe guerre commerciali e crisi valutarie. Protezionismo e stretta anti-migranti avrebbero una ricaduta potenzialmente inflazionistica, ritardando nuovi tagli dei tassi. L’agenda di «America first» prevede che alleati e avversari siano valutati in base al surplus commerciale con gli Stati Uniti, con un impatto nocivo per l’Europa, la cui crescita è trainata dalla domanda estera. L’Europa già ha faticato a seguire il protezionismo alla Biden e s’è nettamente divisa sui dazi alle auto elettriche cinesi.
L’altra questione scivolosa è la Nato, l’alleanza che definisce il perimetro della sicurezza in Europa. Trump non ama le mediazioni internazionali, tratta in chiave bilaterale e agli alleati chiede più soldi. La Difesa, dove Parigi e Berlino non si capiscono, è materia sensibile per governanti e opinioni pubbliche. Il prossimo inquilino della Casa Bianca, proprio su questo versante, è nelle condizioni di allargare le crepe già visibili fra i Ventisette: metterli nelle condizioni di dover scegliere nell’immediato fra burro e cannoni significa voler rompere un equilibrio precario e destinato a perdurare.
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