Il ricordo dei morti fra memoria e cultura

Prediligo sempre il sussurro di una preghiera, l’intimità di un pensiero, il soffio di un ricordo rispetto al profumo di un fiore e al suo valore simbolico. Che so, le stelle di Natale, la mimosa e in queste ore il crisantemo e il trionfo colorato che troneggia sulle tombe dei cari defunti.

Non è una posa la mia, e anzi ringrazio il minore di noi fratelli perché provvede, con sobrietà, a rinnovare con un sempreverde la memoria dei nostri genitori. Provo a spiegare il mio stato d’animo e in fondo la mia concezione degli spartiacque, dei confini, delle contaminazioni, della dialettica che anima il vivere e il morire. Non ho perso la brocca e non ho intenzione di inoltrarmi nei territori della filosofia, della religione, della teologia, della scienza, dell’intelligenza (quella non artificiale).

Semmai qualche indagine condotta leggendo, pensando, scrivendo e qualche approdo e convinzione maturati col tempo. Soprattutto mi districo tra un’infinità di dubbi, ma li tengo per me limitandomi a condividere spunti e sollecitazioni scaturiti da osservazione e curiosità che sono poi il sale del nostro mestiere. Insomma mi fermo alle tabelline, anche se so che neppure i logaritmi basterebbero per decifrare enigmi e arcani dei quali cogliamo soltanto qualche segno. Ebbene, la priorità è per me quella di distinguere nettamente i concetti di cultura e di culto. Diciamo pure dei morti, attenendoci al calendario.

Il primo approccio deriva dal tempo della semina, del nutrimento, del raccolto. Ha a che fare con la capacità di vivere e capire fino in fondo luoghi, tempi, tradizioni, costumi e in fondo i tratti peculiari di una società.

Pensate, in tutt’altri termini, all’impronta straordinaria di ciò che chiamiamo la cultura del lavoro lecchese. La cultura d’impresa che, nel passato e anche nel presente, contribuisce a cambiare in meglio città, paesi e comunità.

Il secondo concetto, quello del culto, richiama invece a mio avviso una sfera per lo più acritica, fideistica, una regola tautologica, quando non addirittura ossessiva e obbediente. Non è la mia tazza di te, direbbero gli inglesi. Nel culto dei morti vedo, in fondo, un tentativo di esorcizzare la nostra paura più tremenda: quella dell’annientamento finale, peggio ancora se improvviso o determinato da circostanze casuali. Per carità, un ipocondriaco di fama nazionale come sono stato io capisce perfettamente l’attitudine di chi vive tastandosi il polso e facendo gli scongiuri che quanto accaduto al carburatore dell’auto non succeda anche alla propria valvola mitralica. Ma proprio per questo sono anche in grado di passeggiare tra i vialetti di ghiaia dei cimiteri (non in questi giorni, dal momento che soffro parecchio di moltitudine) senza degradare i miei cari e quelli altrui a semplici cornetti rossi partenopei, agenti scaramantici in gioco nella grande battaglia delle mie paure ancestrali.

Dei cimiteri amo, al contrario, perdermi tra i fogli di pietra di storie di paese, spesso dimenticate. I camposanti locali sono le nostre Spoon River, testimoni silenziosi di vite che ora tacciono, ma che, in un passato più o meno recente, hanno parlato e vissuto.

Tocca a noi, viventi pro tempore, decidere se vogliamo lasciarli come semplici nomi su lapidi di granito, oppure consentire alle loro voci spente di riecheggiare ancora nel vortice inarrestabile dei giorni che trascorrono.

Questa, a mio avviso, è cultura dei morti.

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