Una missione corta, ma densa di immagini e di parole. Se le une restano negli occhi ed emozionano, le altre però scivolano via in un baleno. Dunque è opportuno prendere qualche appunto e fissare sulla carta concetti destinati all’oblio, fuggevoli per inerzia o per colpa.
Papa Francesco domenica a Venezia è entrato tra le icone della Serenissima. Difficile evitarlo, come d’altronde è accaduto per tutti i Pontefici prima di lui, anche se non è salito in gondola come Paolo VI, Karol Wojtyla e Benedetto XVI.
Ha percorso la Giudecca sul motoscafo, gli occhi pieni di meraviglia, ha attraversato il bacino dalla Salute a San Marco sul ponte di barche abbracciato dai giovani, ma ha anche pronunciato parole che dovrebbero avere nella memoria della giornata altrettanta cittadinanza. È venuto per visitare il padiglione della Santa Sede alla Biennale, allestito nella chiesa del carcere della Giudecca. Il tema della Biennale quest’anno è assai iconico, «Stranieri ovunque», per dire che nell’arte nessuno è straniero.
La Santa Sede ha voluto intitolare il proprio padiglione “Con i miei occhi”, che non è l’indicazione dello strumento per guardare, ma di un metodo e insieme è un’esortazione a vedere tutti, anche gli invisibili, anche chi dà fastidio, anche chi è espulso dal dibattito civile, reietto dalla convivenza, ladro o assassino, straniero o nero, disabile o matto, secondo la narrazione tossica che distribuisce le carte del destino e fissa i perimetri delle diseguaglianze.
La missione corta e densa di Venezia è servita ad indicare criteri antagonisti al racconto meinstream e al copyright di chi insiste ogni giorno sul disprezzo e sul contrappunto tra presunti buoni e la bufera, sempre presunta, imposta dai cattivi.
Bergoglio ha indicato una road map, anzi ha confermato quella dell’intero pontificato, ostinatamente contraria alle antinomie, secondo la logica del rifiuto. Tuttavia non si è fermato qui e nell’incontro con gli artisti nella chiesa del carcere femminile della Giudecca, diventato Padiglione vaticano alla Biennale non per comodità e soprattutto, non a caso, ha riassunto «le antinomie insensate» del mondo utilizzando una parola che dovrebbe farci tremare: «Aporofobia». Lo ha definito «terribile neologismo». Significa «fobia dei poveri», ma oggi la paura trascende nell’odio e diventa purtroppo normale il disprezzo che corre sui social, nelle invettive dei politici e nei talk show del mondo al contrario. I poveri, non solo quelli con il portafogli vuoto, ma i fragili, i segregati prodotti dalla rottura dei legami e dall’esclusione sociale, i profughi e i migranti oggi non li tollera più nessuno. Chi sta bene è oggetto di ammirazione, chi ha inciampato diventa uno scarto umano a cui nemmeno si riconosce la possibilità di riscatto, perché il merito è stabilito per legge, statico e non occasione dinamica di redenzione. «Aporofobia», insomma, concetto icastico coniato nel 1995 dalla filosofa spagnola Adela Cortina, docente di etica all’Università di Valencia, che condensa una patologia sociale e politica e nel contempo una sfida drammatica oggi per le democrazie.Bergoglio a Venezia ha messo in guardia sui rischi di una realtà globale fondata sulla paura, il disprezzo, il rifiuto, l’avversione, l’ostilità. L’ «aporofobia» è concetto maledetto, nefasto, anzi insopportabile, perché è non funzionale ad un’azione, come la xenofobia o il razzismo, ma è corruzione del sentimento, virus che muta sempre in peggio, se ogni tanto non ci fermiamo a fare la manutenzione delle relazioni.
In Laguna Jorge Mario Bertoglio, invitando al passaggio da “stranieri ovunque” a “fratelli tutti”, ha assegnato il nome alla malattia che lo impedisce.
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