Qui è nata, eppure è proprio al Nord che la Lega rischia di finire la sua storia. Vittima di una crisi d’identità che in questi anni l’ha vista uscire dai propri confini inseguendo financo il sogno di un partito nazionalista. Con il solo risultato reale di essere diventata quasi subalterna alle truppe meloniane persino nel giardino di casa, in quelle Lombardia e Veneto dove il malumore ormai non si contiene più.
E nemmeno si nasconde, come emerso in modo chiarissimo al congresso della Lega Lombarda di domenica scorsa: quello precedente era stato celebrato a Brescia nove anni fa, il che dice parecchio sulle dinamiche interne del movimento, a maggior ragione dopo un commissariamento di quasi 4 anni. Ora i lumbard hanno un nuovo segretario, il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo che attendeva da un anno abbondante congresso e investitura. Al di là delle schermaglie last minute e dell’uscita di scena polemica di Cristian Invernizzi prima e più “telefonata” di Luca Toccalini poi, sul suo nome non ci sono mai stati ragionevoli dubbi. Il problema semmai ora è ripartire nella direzione giusta e se Matteo Salvini continua a ragionare in una dimensione nazionale, dalla base arrivano chiare indicazioni sulla necessità di tornare alle radici, a guardare al territorio, a quel Nord dove tutto è cominciato. Agli artigiani, alle partite Iva, al mondo produttivo, a tutte quelle realtà dove gli slogan del Carroccio hanno sempre trovato facile presa.
Il “la” è arrivato dallo stesso Romeo dopo la proclamazione, seguito poi dal presidente della Regione Attilio Fontana, uno che normalmente è ritenuto elemento di sintesi e pacatezza. La sua prima elezione a Palazzo Lombardia è coincisa con il massimo risultato in regione della Lega, il 29,68%: era il 2018, sembra un secolo fa. Già 5 anni dopo FdI è diventato il primo partito, del centrodestra e della Lombardia. La riconferma di Fontana non è mai stata in discussione ma gli equilibri interni sono profondamente cambiati, sia a livello nazionale che regionale. Sullo sfondo le tensioni interne al movimento, quelle ataviche tra lombardi e veneti, la sostanziale mancanza di alternative a Salvini, la cui leadership appare però sempre meno solida, il futuro di uno Zaia amato come pochi (anche fuori dal Veneto), ma non ricandidabile.
Un fuoco incrociato che sta mettendo a dura prova la tenuta di un movimento dove la divisione tra militanti e vertici si sta facendo marcata, contravvenendo a uno dei principi-cardine della Lega, decisivo per il superamento della fase bossiana e anche per l’ascesa di Salvini. La stessa adunata di Pontida con la parata di leader stranieri di una destra spesso estrema non ha scaldato i cuori di una base che ha sempre creduto in una Lega come sindacato del territorio e fatica a comprendere l’eccessiva attenzione di Salvini a temi nazionali, come quel ponte sullo Stretto che fino a non molto tempo fa sarebbe stato bollato sic et simpliciter come simbolo di “Roma ladrona” e che invece è diventato un punto fermo dell’azione del Salvini ministeriale.
Sullo sfondo il dilagare delle truppe meloniane, decisamente meno strutturate sul territorio, ma vincenti nelle urne (e si sa che l’italiano, di qualsiasi latitudine, è bravissimo a correre in soccorso del vincitore, come diceva Ennio Flaiano), Forza Italia incredibilmente in grado di sopravvivere a Berlusconi e mutare così gli equilibri di un centrodestra dove la Lega rischia di essere la terza ruota. Ma soprattutto di perdere quel Nord che un tempo veniva chiamato Padania e che ora è terra di conquista.
L’anno prossimo si vota per il Veneto, Salvini avrebbe abbozzato un possibile rinvio per consentire a Zaia di dare il via alle Olimpiadi, motivazione dal dubbio valore costituzionale. Politicamente quel risultato potrebbe segnare un colpo quasi mortale per una Lega che deve tornare a guardare al Nord, ma con una sottile paura, quella che sia troppo tardi.
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