Il Lecco di Aliberti e il modello Atalanta

Trent’anni fa moriva il mio carissimo amico Roberto Papavero, sociologo, del quale mi ritrovo a rammentare aneddoti di gioventù con il fratello Nicola, direttore didattico, e il ricordo spesso scivola dal suo campo di studioso di sicuro spessore a quello del calcio, dove si muoveva come un autentico fuoriclasse. Destro, sinistro, dribbling, colpi al volo, esterno alla Cruijff insomma un repertorio sconfinato che mi suggerì di ribattezzarlo “Treccani”.

Vincemmo insieme ( ero un difensore con i piedi buoni ) parecchi tornei, specie notturni.

Uno, prestigioso, a Olginate gli valse l’attenzione degli osservatori di Inter e Atalanta che lo inseguirono dopo la finale, suggellata da un suo gol fotocopia di quello iconico, per noi milanisti firmato da Marco Van Basten nell’unica finale vinta dalla sua Olanda meravigliosa, ma perdente.

Confesso che quando vedevo giocare il cigno dalle caviglie di cristallo mi veniva di dire : “ gioca come Roberto “. E non esageravo.

Quando ci ritrovammo per dar vita a un progetto sul voto cattolico in Brianza, con lui meticoloso e certosino ricercatore e io con una certa brillantezza di penna, Roberto si ammaló di quel terribile male che tra l’altro colpì altri suoi familiari e non poté lasciarmi in eredità quel lavoro che io non sarei mai stato in grado di concludere per mancanza di metodo e pazienza.

Mi sono lasciato prendere la mano e dal sentimento perché in verità voglio occuparmi del Calcio Lecco e delle sue tribolazioni in serie C, dopo l’esaltazione per quella serie B conquistata a sorpresa e che aveva riportato al Rigamonti - Ceppi migliaia di tifosi e riacceso una città e una provincia che pure avevano conosciuto i fasti della massima serie.

L’illusione si è spenta nello spazio di qualche mese e ora si è fatto tornati a remare controcorrente.

Dalla poesia del “mistero senza fine bello” come il divin Gianni Brera definiva il football alla amara prosa di quel bluceleste stinto, come può esserlo quello di una squadra che non vince da 29 partite in trasferta. Roba che la Smorfia ci sta facendo un pensierino.

Eppure nonostante l’inverno di una serie di prestazioni da brividi, si percepisce una società solida e organizzata ; si sente il peso specifico di un imprenditore come il bergamasco Aniello Aliberti che non è sbarcato a Lecco per fare quattrini ( il calcio è un pozzo senza fondo), ma anche, se possibile, per non perderne troppi.

Le origini campane garantiscono la passionalità, mentre l’attività in quel di Bergamo certifica la cultura del lavoro e quella distinzione, neppure troppo sottile, tra impresa e avventura.

E proprio l’avventura non può non richiamare le stagioni del pirotecnico Paolo Di Nunno al quale va la meritata gloria per la promozione in B e il riconoscimento per aver saldato i debiti e pagato con regolarità gli stipendi, virtù che gli fanno perdonare eccessi alla Trump, sceneggiate alla Merola, gergo da portuale.

Mi permetta il lettore, tanto più se è tifoso, di disinnescare la solita lagna per il disinteresse del mondo economico locale per le sorti del Calcio Lecco. L’epopea del presidentissimo Mario Ceppi resta un unicum : il giocattolo di un ricco e generoso malato del pallone e dei suoi protagonisti e capace di regalarci la serie A e giocatori che allora potevamo ammirare solo sulle figurine.

Uno per tutti : quel Valentin Angelillo pupillo di Angelo Moratti, casa Inter, detentore per decenni del primato dei gol in un campionato di serie A con 33 centri.

A parte la breve stagione della famiglia Invernizzi, nessun’altra stirpe lecchese ha regnato sulla società bluceleste e tralasciamo, per carità, di snocciolare la sfilza di folcloristiche figure, tra il piratesco e l’avanspettacolo che hanno provato a insediarsi ai Cantarelli, con persino uno tra questi scappato nottetempo e sottratto dai carabinieri alla ferocia dei tifosi.

Gli imprenditori lecchesi hanno evitato con cura di buttare denaro preferendo sostenere altre discipline sportive dilettantesche: dall’atletica al basket e soprattutto la pallavolo colorata di rosa, particolarmente in palla e seguita dall’entusiasmo sempre crescenti. Come dargli torto alla luce dei fallimenti dei troppi capitani di ventura che spesso sono passati dalle tribune ai tribunali.

Ora ad Aliberti, che di sicuro saprà conciliare cuore, bilanci e ambizione, dando per quasi certa la permanenza in C, mi viene da chiedere non un immediato ritorno in B, bensì che mantenga sana la società e allestisca una squadra competitiva, opportunità che gli è stata negata dai tempi stretti imposti dai colpi di coda dell’ultimo Di Nunno.

Un milione di sponsorizzazioni e quasi tremila spettatori allo stadio sono un bel patrimonio da salvaguardare e sul quale investire.

Inoltre da un imprenditore calciofilo che conosce i prati e le stanze dell’Atalanta mi aspetto che esporti sotto il Resegone quel modello che trae le sue fortune dal vivaio.

Insomma, è inevitabile che la più parte dei giocatori sia straniera e che l’unico superstite della compagine della B sia Matteo Battistini?

Certo non sfugge che nella variegata rosa spicchino i nomi di Di Dio e di Di Gesù, forse arruolati in cerca di un miracolo.

Se questa fosse una via santa alla salvezza calcistica ricordiamo che c’è un osservatore, già ala destra dall’Atalanta che si chiama Madonna. Presidente Aliberti, provi a sondarlo per assicurarsi un trio delle meraviglie con poteri celestiali, capace di suscitare sugli spalti non uno scrosciare di battimani, ma una processione di mani giunte.

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