A volte, dio sta in una siringa. Un dio minore, con la minuscola, che si può indossare come una seconda pelle per sentirsi come un dio maggiore, quello che sta sopra di noi ma non uccide. Questa invece è una divinità inventata a proprio uso e consumo, che interviene per somministrare la morte a suo piacimento, senza discussioni e contrasti, con mezzi sottili e imperiale cinismo, giudicando la vita umana secondo un preciso codice di “priorità”.
Un vice primario, accusato di aver ammazzato cinque persone all’ospedale di Saronno, segue quasi compiaciuto i Carabinieri che lo portano via, la sua amante quarantenne, infermiera e assassina potenziale, almeno a giudicare dai tabulati telefonici, si mostra sorridente su Facebook abbracciata al suo complice. Onnipotenti e deliranti, vivono la solita storia da feuilleton tra medico e infermiera, ormai non più buona nemmeno per i rotocalchi, quindi decidono di renderla unica, perché il binomio amore-morte è da sempre inscindibile, e qui le varianti sono da film dell’orrore.
Di serie B, naturalmente, perché la mente criminale raramente è fantasiosa o sorprendente, e anche in questo caso non si discosta dal già visto: gli amanti decidono di far fuori il marito di lei (lui è già separato e la moglie pare essersela cavata) unico ostacolo al loro amore perverso, ma la donna va oltre e chiede al piccolo dio della morfina di uccidere ancora. Con uno dei figlioletti, in macchina, disserta tranquillamente su come sopprimere eventualmente anche nonna e zie, non sapendo di essere intercettata dai carabinieri.
Ostacoli, non più persone, affetti di colpo diventati inutili, anzi dannosi perché la passione conosce solo vie dirette, quindi da eliminare presto e bene, senza rumore, con qualche sapiente iniezione, nel silenzio complice delle corsie d’ospedale.
A Sonya Caleffi, l’infermiera di Lecco killer di 12 pazienti, bastava un po’ d’aria aspirata dall’ago e rimessa in vena e il gioco era fatto, semplice ed economico.
Il vice primario anestesista mostra invece di non aver studiato invano, e inventa addirittura il “protocollo Cazzaniga”, con un mix ben dosato di droghe endovena.
Per un anziano malato e debole, basta e avanza, ma non per il marito di Laura Taroni, più resistente e giovane: per lui serve un trattamento di lungo corso, lento e inesorabile, con farmaci che non c’entrano nulla con la sua patologia. Diabolico ma non nuovissimo, a parte la chimica diversa, perché la letteratura noir abbonda di casi di progressivo avvelenamento della vittima designata, di solito con arsenico.
Al di là degli aspetti quasi grotteschi del caso, ciò che causa il maggior allarme è la connivenza di altri 14 indagati, quasi tutti dipendenti dell’ospedale, si sospetta a conoscenza del “protocollo Cazzaniga” e ovviamente silenziosi sulle nefandezze del “dottor morte” quando era di turno al pronto soccorso. Tutti a protezione del male, o forse di ciò che, nel nostro mondo rovesciato, poteva apparire come un’eutanasia forzata ma indispensabile, vista la carenza di letti e la “fatica” di dover curare gli anziani. Quasi un bene insomma.
Così il medico in camice bianco, un tempo davvero simile a un dio, ma buono e consolatorio, oggi può diventare un potenziale pericolo per i pazienti, un nemico che ha perso di vista il confine tra realtà e delirio, sostituendosi al destino ancor prima di curare.
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