Il declino
del ceto
medio
e due “Italie”

Il declino del ceto medio si esprime al meglio con un esempio. Il colosso chimico tedesco Basf in Germania vede solo spese e pochi guadagni.

Decide quindi di investire altrove e mette sul piatto 10 miliardi. Toglie impianti dalla sede centrale di Ludwigshafen e li trasferisce in Cina. Gli addetti tedeschi vanno a spasso e vengono rimpiazzati da giovani cinesi.

Laureati con vocazione al sacrificio aziendale e molto meno cari per le casse del gruppo. E i loro colleghi tedeschi? O vanno in Cina o dovranno rimettersi sul mercato. Sempre che l’età sia non troppo in là e la qualifica professionale buona.

La guerra in Ucraina, il taglio al gas russo, le bollette a caro prezzo, il futuro incerto della riconversione energetica e tecnologica fanno dell’Europa un terreno minato per le imprese. In Italia è ancora peggio perché la produttività è da più di vent’anni in calo e attualmente solo la Grecia fa peggio del nostro Paese. E questo si riflette sul Pil che tra il 1970 il 1980 è cresciuto del 41,6% per poi scendere progressivamente fino allo zero virgola di quest’anno.

C’è un evidente disallineamento rispetto agli altri Paesi che hanno un vantaggio sull’Italia: non presentano così marcate differenze territoriali.

Di fatto viviamo due Italie: una fatta di circa 20mila aziende che per compensare la bassa domanda interna si sono buttate sull’export, hanno dovuto misurarsi con la concorrenza internazionale ed hanno imparato il mestiere della competitività. Sono loro che danno al Paese lo status di potenza industriale. E poi abbiamo il resto che si aggrappa alle posizioni acquisite e guarda all’internazionalizzazione non come un’opportunità di crescita ma come concorrenza sleale. Vale per quelle imprese che ancora si attardano su prodotti a basso valore aggiunto che la concorrenza di Paesi emergenti a basso contenuto tecnologico, ma a prezzo stracciato mette facilmente fuori mercato. Ma vale anche per le corporazioni che come i tassisti o i balneari pensano di difendere i loro diritti come se il settore servizi fosse una mera questione interna non esposta alla concorrenza internazionale. Tutto questo si ripercuote nel desiderio di mantenere le cose inalterate in un mondo che invece è esposto ai cambiamenti. Non è solo la globalizzazione, ma soprattutto la tecnologia che avvicina sempre di più i continenti e quindi i confronti. Quello italiano è un ritardo culturale. Soprattutto per una parte del Paese che non essendo industrializzata a pieno è esposta ai ritorni all’ assistenza sociale. Un paradigma che non regge più.Mancano le risorse. Sono 83 miliardi gli interessi da pagare sul debito. Si prevede per il 2026 una cifra che gira sui 100 miliardi. Ma le entrate cioè il prodotto interno lordo va a avanti per il prossimo anno dell’1%, se va bene. Che è poi quello che andrà a generare il Pnrr. Succede però che il riflesso condizionato di una cultura della cosa pubblica fatta di clientele e favoreggiamenti produce a sua volta scandali come in questi giorni si leggono sui giornali in Liguria. Persino le Olimpiadi invernali sembrano non si siano sottratte allo scempio. L’opinione pubblica italiana è assuefatta e a volte rassegnata ma nel caso del Piano nazionale di ripresa e resilienza si tratta di denaro che viene da titoli emessi dall’Unione europea e garantiti dai singoli Stati. Non sono soldi italiani e quindi dalla loro gestione verrà dato il giudizio sulla credibilità finanziaria italiana.

La tutela dell’italianità che sta a cuore al governo non può prescindere dalle buone pratiche. E solo un bilancio che è costretto a rinunciare all’assistenzialismo per mancanza di risorse induce i governanti a puntare sul lavoro. Abituare ad affrontare la competizione. È la maglia sudata che crea il merito.

© RIPRODUZIONE RISERVATA