Il campo largo era atteso al varco della sua prova di governo. I precedenti, relativi ad analoghe coalizioni di centrosinistra, inducevano a pensare che solo allora sarebbe stato possibile capire se il «rassemblement» avrebbe tenuto o se avrebbe ceduto, come in passato. Nessuno aveva messo in conto che si potesse dissolvere prima ancora di esser stato costituito. S’è incaricato Giuseppe Conte a decretarne anticipatamente la morte. Sorgono spontanee due domande. Per quale ragione il presidente dei 5 Stelle ha messo una pietra tombale sul campo largo? Perché il centro-sinistra fatica tanto a dar vita a una coalizione salda e duratura? Al primo quesito è facile rispondere. Conte non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione dell’imminente prova elettorale senza riproporsi come competitore della Elly Schlein per la leadership del centrosinistra. Ora o mai più. Passato il turno elettorale, non avrebbe più avuto carte pesanti da calare per riaprire i giochi, di fatto chiusisi dopo il tonfo subito dal M5S alle europee.
Altra ragione. Conte sa che il campo largo è la sua fine. Sanzionerebbe il ruolo dominante del Pd. Se invece riuscisse a restringere la coalizione alle sole formazioni di sinistra (fuori Matteo Renzi, insomma), il M5S potrebbe, in alleanza con Alleanza Verdi e Sinistra, competere praticamente alla pari (due schieramenti entrambi forti di un 20% circa) con la Schlein nella attribuzione della leadership.
A Conte infine - terza ragione di affossamento del campo largo - non dispiacerebbe che alla prova del voto regionale la Schlein andasse incontro a un mezzo flop. Non riuscisse cioè a fare il filotto di tre regioni su tre, come fino all’altro ieri ci si aspettava. Non altrettanto ben identificabili sono i motivi per cui al centrosinistra risulta così ostico a compattare le sue forze. Ne avanziamo tre. Primo: la sinistra, diversamente dalla destra, non è mai riuscita, dopo la scomparsa del Pci, a dotarsi di un partito dominante che si potesse proporre come centro di aggregazione di uno schieramento alternativo alla destra. Una sola volta s’è imposto nel suo campo un partito dominante: il M5S, sempre ammesso che sia una forza di sinistra. Non ebbe difficoltà a formare il famoso governo giallo-rosso e vedersi riconoscere la leadership. Non aveva, però, la credibilità sufficiente per dar vita a una coalizione forte.
Un altro motivo che aiuta a spiegare le peripezie che incontra il centrosinistra nella formazione di un’alleanza larga è che non è mai stato in grado di esprimere una leadership forte. Non lo fu nemmeno quella di Romano Prodi, un «Papa straniero» che non disponeva di sue guarnigioni che gli potessero fornire la forza di imporsi a dei soci rissosi. Per due volte vinse e per due volte cadde.
C’è infine una terza ragione. In tempi di personalizzazione della politica, l’assenza di una leadership forte porta con sé l’impossibilità di offrire agli elettori una proposta politica chiara. Un nocchiero, che sia costretto costantemente a trattare col suo equipaggio ogni importante decisione, è molto facile che resti sempre incerto sulla rotta da seguire e forse anche sulla meta da raggiungere. Invece di preoccuparsi di allargare il campo il più possibile, forse il centrosinistra farebbe bene, prima a sminarlo dalle bombe a orologeria di cui è disseminato (a cominciare, per Conte, da quella rappresentata da Renzi), poi a decidere rotta e comandante e, solo dopo, quale coalizione formare. Avrebbe più possibilità allora di non correre il rischio di imbarcare un equipaggio poco disposto a riconoscere la gerarchia di comando e quindi facile ad accapigliarsi alla prima occasione.
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