Il blackout informatico ci soprende fragili

Lo scorso venerdì è stato un giorno da dimenticare per i viaggiatori di tutto il mondo ma anche per le banche, le società e in generale per tutte le attività che richiedono l’uso dei moderni sistemi di comunicazione. Sembra che l’aggiornamento di un software che fa capo a una grande società statunitense abbia interagito con i sistemi digitali di mezzo mondo interferendo sulle loro “normali” attività. Così per qualche ora, siamo ritornati 50 anni addietro come tecnologia, ma nell’attualità come bisogni. Per fortuna al momento, le automobili non sono ancora connesse tra di loro, altrimenti avremmo allargato l’impatto di un tale disguido e “fermato” anche il traffico su strada.

Il problema è stato fortunatamente risolto in poche ore anche se chi si è trovato in mezzo, dagli utenti agli operatori, ha sofferto per un bel po’ anche nelle ore successive.

L’evento merita una riflessione. A maggior ragione in un momento storico in cui si affacciano i primi impatti dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite. Siamo ancora agli albori ma nei prossimi anni assaggeremo i cambiamenti che questa nuova “tecnologia” pervasiva apporterà alle nostre attività.

Ecco allora che ricompaiono le paure, i timori che queste innovazioni generano nella nostra psiche. L’idea, ad esempio, che si perda il controllo su molte attività oggi ancora “umane”, oppure che qualcuno possa acquisire poteri superiori di controllo e di governo sulle vite di tutti gli altri. O ancora, che tutto ciò determinerà la fine di molti lavori e squilibri sociali ancora più accentuati rispetto a quelli attuali. C’è del vero in queste riflessioni, i timori non sono infondati. E, tuttavia, quello che abbiamo davanti è un percorso irreversibile e che va, non tanto superficialmente né semplicemente, governato.

Ecco allora ritornare al blocco informatico di venerdì e alla vita di 50 anni fa. Ebbene, era il 1972 quando compariva sul mercato la prima calcolatrice portatile, la Hewlett Packard Hp 35, così chiamata perché dotata di 35 tasti, il primo computer palmare al mondo. Chi oggi ha tra i 50 e i 60 anni si trovava all’epoca certamente sui banchi di scuola e imparava a far di conto senza utilizzare quel potentissimo strumento: le moltiplicazioni (con la prova del 9), le divisioni e molto altro ancora venivano fatte “a mano”. La diffusione della calcolatrice fu accolta con curiosità, con piacere ma anche con qualche timore. Si diceva che avremmo “addormentato” il cervello, tutto sarebbe stato svolto da un dispositivo che avrebbe alimentato la nostra pigrizia.

In effetti, chiedere oggi a un giovane di fare un calcolo a mano è impossibile e abbiamo perso un’abilità. D’altro canto, abbiamo liberato tempo perché si trattava di ripetere cose meccaniche e prive di valore innovativo. La calcolatrice ha anche cambiato i lavori. Pochi si ricordano i fruttivendoli con la matita sull’orecchio per annotare gli acquisti e far di conto. Nessuno vorrebbe tornare a quel mondo sia chiaro. Tuttavia, questo esempio e quanto avvenuto la scorsa settimana ci hanno fatto capire tanto la nostra forza crescente quanto la nostra permanente fragilità.

Chissà se questa lezione è percepita anche da coloro che si sentono “padroni del mondo”, che peccano di umiltà e che non sembrano coltivare il dubbio. Se tutti riflettessimo un attimo, recuperate le fatiche di un mondo antico che ci sembra così incomprensibile, scopriremmo che sì, grazie alla scienza e alla tecnica siamo più forti e performanti di un tempo, ma conserviamo allo stesso tempo intatta la nostra fragilità. Non è una cattiva notizia, restiamo profondamente umani. E restiamo al centro.

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