Il 7 ottobre, Netanyahu e le scuse Presa in giro

È grottesco, ma indicativo dei tempi, che abbiano fatto il giro del mondo come un fatto memorabile le quattro parole smozzicate con cui il premier israeliano Benjamin Netanyahu si sarebbe «scusato» per quanto successo il 7 ottobre del 2023, ovvero per non aver saputo impedire la strage compiuta dai terroristi assassini di Hamas. «Mi dispiace profondamente che sia successa una cosa del genere», ha detto Netanyahu alla rivista americana “Time”, «ti guardi sempre indietro e ti chiedi se avessimo potuto fare qualcosa che lo avrebbe impedito». Fare qualcosa? È vero che Netanyahu è stato capace di andare al Congresso Usa a dichiarare che le truppe israeliane non uccidono i civili a Rafah ma, al contrario, li salvano. È vero che lo stesso Netanyahu continua a sostenere che ammazzare decine di migliaia di civili nella Striscia di Gaza serve a «sradicare Hamas», impresa così vicina alla realizzazione che Hamas ha appena nominato come proprio capo politico Yahya Sinwar, organizzatore delle stragi del 7 ottobre che ancora si muove indisturbato nella Striscia. Ma era difficile immaginare che il premier israeliano potesse cercare di prendere in giro in questo modo anche i suoi connazionali.

Sul 7 ottobre, pur limitandoci al solo lato israeliano della questione, gravano tali e tante ombre che spiegano benissimo perché Netanyahu cerchi con tanta ostinazione di far durare il più possibile la guerra. Ecco qualche esempio. Secondo un’inchiesta (mai smentita) del New York Times, l’intelligence israeliana era in possesso da almeno un anno di un documento segreto chiamato «Mura di Gerico» che descriveva per filo e per segno il piano stragista che poi i killer di Hamas avrebbero realizzato. Secondo un’inchiesta (mai smentita) del quotidiano israeliano «Haaretz», poi, un altro documento simile era nelle mani del Governo israeliano fin dal 2014.

Ancora: la reazione delle forze armate e di sicurezza di Israele, nelle ore cruciali, è stata ben lontana da quell’efficienza e precisione che viene loro di solito accreditata. I militari hanno usato mezzi blindati ed elicotteri in situazioni confuse, senza sapere bene a chi stavano sparando. Sono molti, in Israele, coloro che credono che decine di vittime siano da attribuire agli interventi maldestri di reparti lasciati senza ordini precisi e presi dal panico. Per non parlare delle esitazioni: i soldati israeliani hanno atteso 12 ore davanti al kibbutz Be’eri prima di intervenire, mentre intanto 101 loro connazionali venivano falciati dagli assassini di Hamas. Tanto da spingere Gadi Yarkoni, capo del Consiglio regionale, a dire: «Questa inchiesta parziale continua di fatto la linea che governa Israele, ovvero che nessuno sia da incolpare. Il più grande disastro nella storia del Paese e non c’è nessun responsabile».

Ma il concetto fondamentale è proprio questo. Oggi tutti dicono che l’unica soluzione che possa garantire la sicurezza di Israele e una vita normale per i palestinesi è quella «due popoli due Stati». Lo dicono gli Usa, lo dice la Ue, lo dice l’Onu. Ma allora come si possono ancora sopportare le menzogne di Benjamin Netanyahu, forse il politico israeliano che più si è battuto perché quella soluzione diventasse di fatto (e poi anche per legge, votata qualche settimana fa dalla Knesset) impossibile? Gli assassini del 7 ottobre sono quelli di Hamas, e nessuno potrà mai scordarlo o perdonarlo. Ma se Israele è arrivata a vivere un tale disastro la colpa è anche sua, di Benjamin Netanyahu. E i primi a saperlo sono gli israeliani, quelli che non hanno accettato la deriva suprematista dell’attuale Governo e ogni sabato scendono in strada per chiedere, anzi per supplicare, che se ne vada.

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