Il 25 Aprile, comunità di destino e valori

Il 25 Aprile, ovvero la nostra libertà: concreta, non generica. Aldo Moro, esattamente 50 anni fa, definiva la Resistenza «lo scatto ribelle di un popolo oppresso, teso alla conquista della sua libertà». La lotta partigiana, dal ’43 al ’45, ha voluto dire - restando nel suo specifico storico - libertà dal nazifascismo e, in quanto serbatoio di valori morali e civili, ha testimoniato principi senza tempo e confini come la difesa della dignità umana.

La guerra di Liberazione ha chiuso una catastrofe vissuta con i volti del dolore e lungo gli itinerari narrativi della sofferenza e delle privazioni, lasciando in eredità i suoi frutti più maturi: la Repubblica, la Costituzione, la democrazia. «Se volete andare nei luoghi dove è nata la nostra Costituzione - scriveva in un celebre testo l’azionista Piero Calamandrei -, venite dove caddero i nostri giovani. Ovunque è morto un italiano per riscattare la dignità e la libertà, andate lì perché lì è nata la nostra Repubblica».

La ricorrenza della fine della guerra di Liberazione occupa i primi posti nel calendario civile, pur essendo stata attraversata e condizionata dal conflitto ideologico e da polemiche strumentali. L’antifascismo ha avuto più declinazioni, in quanto non è un unicum indistinto, composto da tanti fattori tra loro anche distinti e distanti, un concetto talora dilatato in modo improprio, piegato alla politica del momento, sia interna sia internazionale. Ieri il peso influente della Guerra fredda (comunismo-anticomunismo), ora nella Seconda Repubblica il frastuono di qualche passata diserzione e stonature irrispettose. Precisando, tuttavia, un distinguo: nel primo quarantennio repubblicano la pur aspra contesa è rimasta nel perimetro di un condiviso terreno antifascista dei partiti e delle culture che avevano traghettato il Paese dalla dittatura alla ricostruzione postbellica. L’anniversario pieno (80 anni) potrebbe consentire la rilevanza di un punto di vista critico verso due dibattute ricostruzioni che, benché di fonti autorevoli, hanno messo in discussione la valutazione della Resistenza come momento originario della storia della Repubblica. La prima è che la disfatta dell’8 settembre avrebbe decretato la «morte della patria». Al contrario, come ha detto Mattarella, è stata la riscoperta del senso autentico di patria, cioè di una comunità di destino. La seconda ha trasmesso l’immagine di una guerra fra due minoranze, i resistenti e i repubblichini, consumatasi nell’indifferenza e nell’attendismo della stragrande maggioranza della popolazione. La «zona grigia» del Paese.

In realtà la Resistenza s’è proposta come ribellione morale e va identificata con l’insieme delle condizioni in cui anche la guerra di Liberazione ha potuto sorgere e svilupparsi. Mattarella ha parlato di un «movimento corale, ampio e variegato, difficile da racchiudere in categorie o giudizi troppo sintetici o ristretti». Corale vuole dire che in campo c’erano tutti: comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, liberali, monarchici. Ciascuno con le proprie concezioni militari e politiche. Anche gli operai che hanno fermato le fabbriche. I valori della diffusa presenza cattolica e dell’«antifascismo religioso» dei sacerdoti, alternativi all’ideologia fascista, hanno consentito di recuperare spazi di umanità e le ragioni della pietas, favorendo così - ha sottolineato lo storico Pietro Scoppola - il «superamento di quella idea totalizzante della politica presente in tutte le culture rivoluzionarie». Una rivolta della coscienza contro la tirannia e qualsiasi forma di oppressione sulla persona umana. Hanno pagato duramente anche quei 600mila militari italiani deportati nei campi di concentramento nazisti, dei quali 50mila non hanno fatto più ritorno. La Resistenza, attiva soprattutto al Nord, non s’è caratterizzata per essere soltanto un fenomeno di élites pur coraggiose ed eroiche, perché vi hanno partecipato larghe forze popolari, urbane e di campagna. Con un’infinità di episodi spontanei, una solidarietà molecolare specie dei ceti più umili verso le formazioni partigiane, gli sfollati, gli ebrei, i ricercati. Tutt’altro che una «zona grigia», piuttosto la costituzione di una riserva etica che, in quella terribile prova segnata da miseria e rancori, ha consentito di ricostruire un’identità democratica.

Accanto alla Resistenza armata s’è sviluppata una Resistenza civile e questa convergenza ha permesso di superare la dimensione patriottico-militare per diventare un fatto sociale e un impegno esistenziale di rilevante importanza, penetrando nel corpo vivo della società. È questa nuova identità collettiva la cornice valoriale della Costituzione redatta nonostante tutto (l’incipiente divisione della coalizione internazionale contro il nazifascismo, l’esclusione delle sinistre dal governo De Gasperi nel ’47, la questione comunista), in nome di ciò che univa aldilà delle opposte ideologie: la contrapposizione etica, ancora prima che politica, alla stagione totalitaria. L’Italia s’è così inserita nel moto dell’incedere globale, una storia che, in questi ultimi anni, non è finita ma ha ripreso a correre. E ieri come oggi c’è sempre una democrazia da definire e difendere, oltre a qualche lezione da imparare.

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