Emergenza democratica. Il calembour è fin troppo automatico, considerato che, dopo l’allarmante figuraccia rimediata l’altra notte ad Atlanta da Joe Biden nel suo primo dibattito con lo sfidante repubblicano per la Casa Bianca Donald Trump, siamo di fronte a una situazione di emergenza non solo per il partito democratico cui Biden appartiene, ma per la stessa democrazia americana.
Chi ha seguito il dibattito non potrà mai dimenticare lo sguardo assente di Biden, la sua voce flebile e a tratti inintelligibile, i lunghi e ingiustificati silenzi, i passaggi penosi in cui ha perso il filo del discorso e non ha trovato le parole. Ma forse l’immagine più significativa è stata quella finale, a dibattito concluso, quando un Biden più che mai disorientato ha avuto bisogno del braccio di sua moglie Jill per scendere dal palco e lasciare lo studio televisivo. Ma anche chi non ha assistito a tutto questo oggi sa che quel patetico show, reso ancor più inquietante dalla conferma che Trump rimane la figura pericolosa per la democrazia che è a tutti nota, ha rappresentato un punto di inevitabile svolta.
Il “New York Times”, un colosso della carta stampata che a Biden è sempre stato vicino, ha rotto gli indugi pubblicando un invito al presidente a farsi da parte: non sei più all’altezza del tuo compito – gli viene detto in sintesi – e se vuoi rendere un servizio al tuo Paese devi accettarlo. Un messaggio-bomba. Anche i presidenti degli Stati Uniti si ammalano, e Joe Biden, con ogni evidenza, ha un problema neurologico collegato all’età avanzata. Tutti gli americani lo capiscono, e infatti più della metà di loro non avrebbe voluto vederlo ancora in corsa per la Casa Bianca (il che vale anche per Trump, che pure ha 78 anni). Ma lo vede anche il resto del mondo, chi con preoccupazione e chi con malcelata soddisfazione: è facile immaginare cosa si staranno dicendo a porte chiuse i leader delle principali potenze globali, in particolare in posti poco rassicuranti come Mosca, Pechino o Teheran.
Agire per garantire che gli Stati Uniti non precipitino in una situazione di pericolosa debolezza dovrebbe essere, a questo punto, la priorità del partito democratico. Ma nulla di tutto ciò, almeno per ora e almeno in pubblico, sta accadendo. Biden si è già ributtato in campagna elettorale, tentando di far dimenticare il disastro di Atlanta. Davanti a una folla plaudente che, come se nulla fosse stato, ripeteva lo slogan “Altri quattro anni”, il presidente ha ammesso di rendersi conto di non essere più bravo come un tempo nei dibattiti: “Non sono più giovane – ha detto – ma sono ancora capace di dire la verità”. Per lui tanto basta, e ha messo in chiaro di voler andare avanti.
Tuttavia, con l’eccezione dei fedelissimi che si ostinano a non tener conto delle leggi fisiologiche elementari, tutti si domandano perché un grande Paese come gli Stati Uniti non sappia esprimere qualcosa di meglio di uno stanco ultraottantenne, di un velleitario quasi coetaneo poco a suo agio con le regole della democrazia e – volendo estendere il discorso al candidato indipendente Robert Kennedy junior, di cui poco si parla ma che è stimato al 10% dei consensi – di un mezzo svitato che straparla di vaccini e di chiusura delle basi militari Usa in tutto il mondo. La risposta è nell’arrugginito sistema politico americano, che ostacola la nascita di terze forze e favorisce il formarsi all’interno dei due partiti dominanti di oligarchie rigide: nessuno sfida un Biden traballante perché lo considera tuttora il garante di propri forti interessi.
Gli analisti invitano a guardare alla Convention democratica che si aprirà a Chicago il 19 agosto. Lì Biden potrà essere ufficialmente ricandidato o clamorosamente sostituito. Il bello è che, secondo i sondaggi, quasi chiunque prendesse il suo posto avrebbe solide probabilità di vittoria: perché gli americani che non amano Trump lo odiano o lo temono moltissimo. Un nuovo candidato giovane ed energico (come il governatore californiano Gavin Newsom) potrebbe dare una svolta inattesa. Rimane però l’altra faccia dell’emergenza democratica: se la sinistra Usa non capirà che la follia “politicamente corretta” che impesta le scuole e la società va arginata (e non pare volerlo capire), il voto di reazione dell’America profonda rischia comunque di dare a Trump la vittoria.
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