I numeri sono numeri, ma nella macroeconomia nazionale spesso sembrano opinioni da usare in modo ambivalente. Prendiamo il Pnrr. Secondo Giorgia Meloni siamo i più bravi in Europa ad usare i fondi frutto del debito comune. Ma allora siamo tutti messi male, visto che l’Italia così virtuosa ha speso solo un quarto della somma erogata e mancano solo due anni per dimostrare di aver «fatto» le cose previste. O prendiamo il reddito di cittadinanza che ha improvvisamente lasciato senza protezione molti beneficiari (6.000 a Bergamo), ma vale ancora 6 miliardi, di cui però solo 1,5 assegnati. Prendiamo soprattutto il caso più socialmente rilevante: l’andamento dell’occupazione e dei salari. La contraddizione qui è molto evidente: come è possibile che sia conciliabile il fatto che l’occupazione è «ai massimi» rispetto al passato, ma resta una difficoltà a trovare lavoro ben remunerato? Non vorremmo davvero essere nei panni del professore di statistica che spiega al disoccupato quanti progressi sono stati fatti…
I problemi del lavoro sono tanti, a cominciare dalla demografia (5 milioni di lavoratori in meno tra pochi anni), dalla formazione e persino dalla emigrazione, anche quella in uscita (mezzo milione di giovani dal 2008) che insegue non solo i buoni salari ma la soddisfazione di una vera carriera. Sul caso pur virtuoso di Bergamo ha parlato con chiarezza Elena Carnevali in una lunga intervista al Foglio, in cui spiega proprio la difficoltà di far incontrare la domanda e l’offerta mirata delle imprese. In ogni caso, il confronto internazionale è mortificante. La disoccupazione da noi è al 6,8% e ci sembra bella cosa, ma quella Ocse è 4,9% e l’occupazione è al 62%, ma Ocse è al 70%.
Dato che in economia contano le tendenze, possiamo magari accontentarci dei «massimi» che vengono sbandierati, ma non si scappa dall’altro dato rilevante, e cioè la (non) crescita dei salari. Qui, secondo le rilevazioni, siamo ancora a -6,9% rispetto alla pre pandemia, e fortuna vuole che la fiammata inflazionistica sia rientrata. Questi numeri, come si diceva, possono però essere forzati e rivoltati, perché sono medie.
Guardiamo allora ai settori. Come ha scritto l’economista Marco Leonardi, ben diversa è la situazione di chi lavora nell’industria, nella PA o nei servizi. Dal 2001, nell’industria la retribuzione è cresciuta del 75%, mentre negli altri due settori del 45%. E anche qui i confronti internazionali sono impietosi. Prendiamo un insegnante. La sua retribuzione media è di 24mila euro in Italia, di 28mila in Francia e di ben 54mila in Germania. Dipende da un certo modo di inquadrare politicamente mansioni tanto strategiche, perché è oggettiva la gerarchia di valori che sottende. Servizi (salvo quelli top) e settore pubblico sono in bassa classifica. Per i servizi (nel turismo si registra la maggior crescita dei numeri, ma per salari magari irrisori) manca la possibilità di contrapporre ai costi un aumento di produttività
E qui siamo al nodo, visto che anche il Governatore di Bankitalia Panetta ha speso in questo le parole più severe di una relazione annuale tutto sommato benevola. Panetta ha ricordato che la produttività, dal 2000, è 5 volte più lenta a crescere che in Francia, Germania e Spagna. Si fa fatica ad accettare la regola aurea della crescita legata alla produttività ma i salari si formano anche cosi. E poi… E poi c’è la politica, che presidia criticamente la fluidità del mercato del lavoro e ci sono i sindacati che seguono la scadenza dei contratti, per cui talvolta, come osservato da Michele Tiraboschi, la tempistica confligge involontariamente ma fatalmente con il rapporto tra paghe e inflazione, e non sempre in modo virtuoso. Peggio ci sentiamo se poi politica e sindacati promuovono insieme referendum per abrogare quel poco di innovazione introdotta nella normativa dai tempi dell’art. 18, oppure imbastiscono processi sul salario minimo che possono ripercuotersi negativamente persino sugli accordi tra le parti sociali che coprono la stragrande maggioranza dei lavoratori. I numeri stanno in vetrina e possiamo rigirarli, ma il retrobottega piange.
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