I dazi Usa non possono fermare il mercato

C on l’imposizione dei dazi al 25% sulle auto importate in Usa, Donald Trump dichiara aperta la guerra commerciale. Per il presidente americano è insopportabile che 200 miliardi di dollari all’anno vadano a produzioni automobilistiche straniere.

Il Messico in prima fila come esportatore di autovetture ma soprattutto di componentistica con il 14% poi a seguire Giappone, Corea del Sud e i marchi tedeschi. Per Volkswagen, Mercedes, Bmw, Porsche la perdita secca è di 2,4 miliardi di euro. Resta il fatto che le Borse hanno reagito male non solo sui mercati dell’Asia ma anche in America dove General Motors ha perso più del 6% e Ford 4,7%. Gli investitori temono per il rialzo dei prezzi e i conseguenti cali di vendite. È stato calcolato che le spese di produzione avrebbero un balzo superiore di tre volte il costo attuale. La domanda è: perché dunque il presidente americano insiste su un’operazione che presenta così tante controindicazioni? Trump vuol tener fede alle promesse elettorali ed al contempo spaventare i partner commerciali per poi poter trattare a proprio vantaggio. Lo ha fatto con il Messico e con il Canada e si appresta a farlo con l’Unione Europea. E questo vale sul piano tattico a breve scadenza.

A lungo termine invece l’obiettivo è politico. Si tratta di disarticolare quello che sul piano manufatturiero e industriale è l’ostacolo numero uno ai suoi occhi. Per isolare la Cina è necessario recidere i cordoni che la legano all’Europa. E per far questo occorre che gli Stati del vecchio continente siano disarticolati sul piano politico e ridimensionati su quello economico. Nelle comunicazioni erroneamente trasmesse al giornale The Atlantic appare chiaro come sia il vicepresidente JD Vance che il ministro della difesa americano Pete Hegseth considerino l’Europa un ostacolo, un peso più che un’opportunità. L’Ucraina in quest’ottica è una pedina da sacrificare per staccare Mosca dall’abbraccio cinese.

È un gioco spericolato quello di Trump e non si sa quanto avveduto. Visto che la Russia di Putin sembra non aver fretta di portare a termine gli accordi di pace. Donald Trump lotta contro la globalizzazione e non si avvede che questa sta mutando sotto i suoi occhi per diventare un qualcosa di diverso, di più lento ma pur sempre globale che vive ancora di libero mercato. Prendiamo il campione europeo delle esportazioni, la Germania che basa il suo sviluppo economico sui prodotti industriali venduti in tutto il mondo. Basf, la multinazionale tedesca della chimica, ha comunicato recentemente che il suo sito principale di produzione di Ludwigshafen non é remunerativo. Incidono le regolamentazioni esasperate sia dell’Ue che dello Stato tedesco e la guerra salariale scatenata dai sindacati. Ha scelto come alternativa il Sud della Cina, Zhanjiang, dove ha investito 10 miliardi e costruito un impianto di eguali dimensioni. Volkswagen senza i suoi stabilimenti cinesi non starebbe sul mercato e a un decoupling a Wolfsburg non ci pensano neanche per un secondo.

L’economia mondiale nel 2025 secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale crescerà del 3,3%, il che vuol dire 3mila e settecento milioni di dollari, quasi il doppio del Pil italiano. Una ricchezza che genera ceti sociali pronti ad acquistare e crea capitali da investire. E sono queste le carte che l’Europa può giocare. L’Italia rispetto alla Germania ha un sistema produttivo più agile e flessibile, la dimensione delle imprese permette una rimodulazione delle produzioni. I mercati in via di espansione sono il nuovo punto di riferimento. Lo conferma anche il ministero degli Esteri che convoglia l’attenzione verso i cosiddetti Brics e l’Africa. Ecco perché neanche Trump e i suoi sogni imperiali possono fermare il desiderio di libero mercato della parte maggioritaria del mondo che vuole prosperità perché finora non l’ha avuta.

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