Grandi opere nel lecchese: età dell’oro senza eredi

Ponti e muri sono i simboli reali e metaforici della storia dell’umanità. Di ogni epoca e latitudine. Sono tra i vocaboli più frequentati da papa Francesco all’Angelus della domenica a mezzogiorno, quando invoca il cessate il fuoco. L’ho presa alta la palla al balzo per schiacciarla tra i ponti pasquali e quelli che tormentano il territorio lecchese in entrata e in uscita, rendendo persino comica l’ambizione di una città che guardi, appunto, oltre i ponti.

La madre di tutte le battaglie viabilistiche di casa nostra è stata la SS 36, il cui cammino si iscrive tra ministeri e legislature, proteste, ritardi, soldi buttati, per tacere dell’asfalto lastricato di morti sul lavoro, iscritta tra le opere connotate come “fabbrica del Duomo”.

Va da sé che la nostra lente mira a ingrandire il capitolo delle infrastrutture strategiche del territorio, frutto di quello che siamo abituati a chiamare, un po’ pomposamente, sistema Lecco. Per farmi capire dai lettori, soprattutto i più giovani, alcuni dei quali siedono ai vertici di partiti, istituzioni, associazioni, mi riferisco all’attraversamento di Lecco, all’ospedale Manzoni, al Politecnico, al raddoppio della linea ferroviaria per Milano, all’acquisto di Villa Monastero da parte della Provincia, alla nuova Lecco Ballabio e l’elenco potrebbe continuare con opere “minori” come l’acquisizione da parte del Comune capoluogo della strategica area della piccola velocità avviata dal sindaco Resinelli negli anni ’80 e conclusasi oltre trent’anni dopo con la Giunta Brivio.

Non c’è stata un’età dell’oro, tutto ghirlande e tagli dei nastri, ma un intreccio di opere realizzate e grumi di lentezze e di obiettivi mancati e di tempi biblici ( si pensi al polo logistico del Lecchese, alla nuova caserma dei vigili e al cantiere del tribunale).

Al cospetto di questo clima di collaborazione, trovo assurdo il gioco su opere fondamentali che da obiettivi comuni scivolano in rivendicazioni di parte.

La Lecco-Bergamo avviata da un accordo tra la provincia di Lecco ( allora centrosinistra ) e quella di Bergamo ( allora centrodestra ) tra mille ostacoli tecnici e finanziari viene ora messa in discussione dalle stesse forze politiche che l’avevano concepita.

La verità è che anche su snodi delicati ciascuno ambisce a difendere il proprio orto e lo scaricabarile è lo sport preferito. Non sono un tifoso scatenato del concetto di squadra ( ho ancora, da milanista, gli occhi sgranati per l’esterno di Lautaro al Bayern ), ma l’esperienza mi suggerisce che le divisioni fanno sempre male al bene comune. Ho sempre ritenuto che i lecchesi in Regione e in Parlamento debbano esercitare una sana lobby per il territorio. Capita invece che esponenti della stessa coalizione se le diano di santa ragione anche sul sesso degli angeli. Al contrario mi vengono alla mente bersagli centrati proprio in virtù di solidarietà istituzionale.

Il Politecnico ha una firma in calce, quella di Vico Valassi, al quale l’aureola non la può levare neppure il diavolo, ma la sua azione fu accompagnata dal Comune di Lecco, sindaci Pogliani e Bodega, che attraverso il piano regolatore destinarono l’area dell’ex ospedale, peraltro assai appetibile al mercato, alla nascente Università. Nè va cancellato il finanziamento della Regione Lombardia con il presidente Formigoni e non ultimo la dote di alcuni milioni portata dalla inedita coppia Roberto Castelli, Lega, e Antonio Rusconi, allora Pd.

Oggi invece prevale la voglia di mettere il cappello ad ogni stormir di fronde sia quando l’affare va in porto, sia quando ci si pavoneggia per averlo fatto saltare.

La vicenda del nuovo municipio già progettato e finanziato e cestinato alla ricerca della Reggia di Caserta assurge a emblema di uno stile che richiama Nanni Moretti: per farsi notare, meglio intestarsi un’opera frutto di un’ampia convergenza o meglio chiamarsi fuori pur di distinguersi in solitudine?

Ho ragione di credere che non sarà semplice inventare tavoli a quattro gambe per trovare una comune strategia, nè a tre per sedute spiritiche, quelle care a Romano Prodi, fino a quando non tornerà come centro di gravità della politica il cosiddetto bene comune.

Il piatto delle infrastrutture è ricco perché tutte le strade portano al consenso. Lo sapevano bene i dorotei (la corrente più forte della DC) che erano disposti a trattare su qualsiasi ministero tranne i Lavori Pubblici. Nacque così la leggenda del trio Piccoli, Rumor, Bisaglia ( il famoso PiRuBi ) che spadroneggiava dalle Alpi a Lampedusa e che, se lasciati fare, non avrebbero asfaltato l’Italia fino al cancello delle loro dimore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA