Come già era accaduto per i posti scoperti dei docenti lecchesi, mi sono nuovamente ritrovato a gettare uno sguardo incredulo a un titolo del nostro quotidiano. Quasi due ore per arrivare da Lecco all’Isola bergamasca, ogni mattina, recitava l’approfondimento dei giorni scorsi. Ora, i lettori sanno bene che la mia dimestichezza con i tempi di percorrenza delle strade provinciali è la stessa di Antonio Conte con la categoria dell’umiltà. Sicché, memore dei tanti panegirici che amici e conoscenti rivolgono alla rapidità dei trasporti nazionali e internazionali (”In tre ore sei a Roma in treno”, mi dicono, e ancora: “Un’ora e mezza di volo per Parigi”), mi sono convinto che qualcosa non andasse. E, in effetti, c’è qualcosa che non va.
Le strade verso la Bergamasca erano e sono già di per sè dritte quanto le convergenze parallele di Aldo Moro che sfidavano la geometria e teorizzavano la convivenza degli opposti interessi. Quanto poi alle strade che non ci sono ancora, i rimbalzi di responsabilità e di tempi sono più fantasiosi e disarmanti dei colpi ad effetto di un match McEnroe-Connors.
Ed ecco realizzata la tempesta perfetta per i viaggiatori lecchesi e bergamaschi. La Lecco-Bergamo è ormai paragonabile alla Fabbrica del Duomo, molto meno veneranda s’intende. E se penso alla lunga lista di politici e amministratori che ha fatto a gomitate per intestarsi ogni metro del progetto, ci sarebbe da realizzare una Walk of Fame degna di Hollywood. Insomma, per i lecchesi ci sarebbe da incazzarsi parecchio sulla vicenda, se non fosse che ormai la nostra società del riflusso (o magari dovrei dire del reflusso, quello gastroesofageo) spende più tempo a seguire le diatribe musicali tra qualche mezzo cantante in erba.
La verità è che, come spesso ribadisco, mancano progetti, teste e volontà per fare lobby territoriale (e parlamentare). Le imprese lo scandiscono sempre a gran voce: prima di tutto, le infrastrutture. Ricordo in proposito la battaglia e i dibattiti sollevati dall’amico Lorenzo Riva in veste, allora, di presidente di Confindustria. E non era certo da solo.
Il cuore del problema è che gli assi imprenditoriali e le associazioni di categoria si fondono e si aggregano non solo per sintonia economica, ma anche e soprattutto lungo gli assi viari. Ricordate le strade romane? Facevano a fette l’impero senza badare a popoli e culture tanto erano fondamentali, e ancora oggi ne conserviamo i nomi.
Quando penso a una sana lobby territoriale, rispolvero i miei ricordi della prima Repubblica. Penso a come l’80% e oltre delle delibere relative a infrastrutture passasse all’unanimità in Parlamento, senza veti contrapposti di colore politico. Penso a quei ministri dei Lavori pubblici che trasformavano i loro collegi elettorali in Bengodi asfaltati (ricordiamo tutti il socialdemocratico Nicolazzi, ad esempio). Penso alla famosa legge che finanziava le opere di protezione dopo la frana del San Martino del sabato grasso del 1969: fu firmata dai parlamentari Calvetti (lecchese) e Morlino, (lucano).
Passò, per l’appunto, anche grazie a un abile baratto con l’operazione Sassi di Matera, che stava a cuore al ministro Morlino.
Penso alla sudatissima SS 36, costata metro per metro (anche con qualche morto) e alla consapevolezza politica che l’ultimo chilometro di un’opera pubblica costa cento volte il primo. Servono spalle larghe, teste lucide. E tempismo. Perché il tempo, come amano ripetere i cardiologi quando parlano della rapidità dei soccorsi in caso d’infarto, è tutto, e fa guadagnare in un colpo anni di vita.
Ora la Lecco- Bergamo di lustri con i cantieri aperti ne ha fatti trascorrere a mazzi eppure le recenti sollecitazioni della Regione, compresi i baiocchi investiti per soccorrere le magre casse degli enti locali lasciano indovinare un futuro nel quale i 35 chilometri che dividono le due città non somiglino più alla Via Lattea.
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