Globalismo la lotta non nasce con Trump

La visita americana della premier Meloni ha risollevato la speranza in una composizione dello scontro tra Usa e Ue sul fronte dei dazi. Questo nulla toglie allo scenario intonato al pessimismo apertosi con la presidenza Trump.

L’augurio sottaciuto delle cancellerie del Vecchio continente è che si tratti solo di uno sbandamento della politica americana, destinato a rientrare. La speranza è che sia frutto di un fraintendimento dell’elettorato statunitense. Questo si sta già, non a caso, pentendo della fiducia accordata a Trump: sono più i guai dei vantaggi che sta ricevendone.

Guai, tanti, il presidente degli Usa li sta procurando anche a noi europei, a fronte di un solo vantaggio - bisogna riconoscere, però che non è di poco conto - che involontariamente ci ha regalato, incoraggiando un ricompattamento delle sparse membra dell’Ue che lascia ben sperare in un suo prossimo protagonismo politico. Guai tanti per l’Europa, si diceva, e purtroppo anche un rischio. Ci riferiamo all’illusione che serpeggia nell’opinione pubblica di considerare la deriva protezionista di Trump un fatto occasionale e comunque specifico dell’America. A confutare questa falsa convinzione è la storia. Basta guardare agli ultimi trent’anni e si scopre che è di lunga data la contestazione mossa ad un mondo in cui circolano liberamente uomini e merci. È un sentimento di rigetto che trascende la distinzione destra-sinistra.

Trova in entrambi gli schieramenti forze politiche che si ergono a capintesta della lotta lanciata al cosiddetto globalismo. Già Ronald Reagan, per restare negli Usa, era insorto (negli anni ’80) contro i danni che la concorrenza del Giappone stava procurando all’industria automobilistica americana. È fitta la serie di proteste, anche di movimenti strutturati, sorti poi per combattere il libero commercio internazionale. Trump ha avuto un precursore: Ross Perrot, anche lui candidatosi nel lontano 1992 alle presidenziali. C’è stato poi, una quindicina di anni dopo, il Tea party movement, prima organizzazione di massa che ha iniettato nel Grand old party, il partito repubblicano, il virus del populismo anti establishment. Passando dalla destra alla sinistra, si nota una stessa montante ribellione verso il nuovo ordine mondiale, sorto dopo la caduta del comunismo: a cominciare dal movimento no global.

Sono cambiati i nomi e le forme organizzative ma uguale è stata in questi anni la fonte della rabbia che ha animato anche in Europa la lotta alla globalizzazione. Cos’altro esprimono le proteste anti immigrati, gli attacchi contro l’Ue e la sua burocrazia? Sono espressioni della stessa ribellione sorta contro “il tradimento delle élite”, il loro cosmopolitismo di comodo che nasconde una razzia delle ricchezze del mondo, contro la finanza internazionale e i grandi monopoli campioni dell’arte predatoria a danno dei popoli. Anche al di qua dell’Atlantico, l’antiglobalismo ha la stessa presa, a destra come a sinistra. Non è un caso, per venire a casa nostra, che Conte e Salvini paiano due gemelli che litigano per strapparsi di mano la rappresentanza della stessa porzione di opinione pubblica, contraria a impegni sovranazionali, all’euro, all’Ue, alla difesa europea. Trump potrà declinare, la protesta antiglobalismo no, o almeno non presto.

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