
“Il Principe” di Niccolò Machiavelli è uno dei pilastri della cultura occidentale, opera fondatrice del pensiero politico moderno, che si basa proprio sul postulato della laicità della politica e della sua autonomia - la sua autonomia assoluta - da qualsiasi altro potere.
Non solo, visto che stiamo parlando anche di un testo letterario finissimo, scritto in un italiano di qualità eccelsa, pulito, asciutto, essenziale, cartesiano ancor prima che Cartesio venisse al mondo, con uno stile e un ritmo incalzante da far invidia al novanta per cento dei giornalisti di oggi, rappresentanti di questa curiosa categoria che più che ai dettami del segretario fiorentino tende a ispirarsi a quelli di Carducci, Liala, il compagno Folagra, Alberto Sordi e Pulcinella.
Bene, nel settimo capitolo del suo capolavoro, Machiavelli parla “De’ principati nuovi che s’acquistano con le armi e fortuna di altri” e, nello specifico, narra le vicende di Cesare Borgia e di quali e quante qualità politiche avesse, di quanto fosse intelligente e lungimirante e spietato nel perseguimento dei propri obiettivi, ma nonostante questo di come fosse destinato ad andare rapidamente in rovina. Aveva costruito il proprio potere sul favore del padre, Papa Alessandro VI, e quando si basa sul volere e sulla fortuna altrui il proprio governo e la propria vita significa affidarle a due “cose volubilissime et instabili”. Non possedendo armi proprie, dipendendo dagli altri, è impossibile durare. Machiavelli insiste su questo corollario, visto che è un tema che approfondisce nei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” e ne “L’arte della guerra”: buoni governi necessitano di buone armi. Ed è proprio quello che è successo, che Machiavelli sintetizza in un passaggio folgorante: “Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con quella lo perdé”.
E’ chiaro che siamo arrivati al punto. In questo trattato del 1513 c’è già tutto. E’ per questo che è un classico, perché contiene tutto. Tutto il mondo, tutta la storia del mondo, tutta la storia della politica, del potere, dei rapporti di forza, degli spazi vitali e, soprattutto, della psicologia del governante, di questo essere incomprensibile che è l’uomo, è già lì. E il messaggio è chiaro. Non esiste una civiltà che possa vivere e prosperare e scialacquare e, diciamoci la verità, farsi gli affaracci suoi baloccandosi con il fatto che la fortuna, il caso, il destino l’abbia posta al di fuori della storia e che qualsiasi cosa accada basta andare a piangere da papà o da mammà - o da Papa Alessandro o da Papa Donaldo - per far risolvere a lui tutti i problemi. Perché a un certo punto papà e mammà non ci sono più, il Papa è morto, l’eterno alleato onnivoro e possessivo si è stufato di prepararci la zuppa e si è voltato da un’altra parte. Ecco, quello è il momento in cui è meglio diventare adulti.
Se le sedicenti classi dirigenti europee avessero letto a fondo Machiavelli - non parliamo di quelle italiane, che posseggono un livello di cultura generale medio oscillante tra la terza media e la scuola per corrispondenza - avrebbero capito da tanto di quel tempo che l’assioma su cui è stato costruito lo straordinario periodo di pace e benessere del nostro continente - gigante economico, nano politico, verme militare – era destinato prima o poi a finire. Non ci sono pasti gratis. Non ci sono Stati che vivano solo sull’eterno dono e sulle armi atomiche dello Zio Sam. Appena arriva il cambio di epoca storica, il cambio di paradigma, viene giù tutto. Erano decenni che questa onda era in evidente formazione e ci sarebbe stato tutto il tempo per prepararci alla tempesta e costruirci un riparo. E invece eccoci qui.
Quale potere negoziale possiedi se sei privo di forze tue, di armi proprie, come diceva il grande analista toscano? Che parte pensi di poter recitare nell’eterna commedia del potere? Quanto conti al tavolo delle trattative se non hai alcuna deterrenza da esibire? E cosa pensi di fare, adesso? Creare un unico governo europeo, un unico fisco, un’unica forza armata, un’unica politica economica ed estera? In sei mesi? In un anno? Ma davvero? Ma chi ci crede? Ottant’anni di narcosi, di boom economico, di consumi e di demagogia “apolitica” hanno creato una struttura culturale e psicologica in tutti noi europei - tranne, in parte, in Francia e Gran Bretagna, che non a caso derivano da fortissime esperienze “imperiali” - che ci fa fuggire dall’analisi seria e profonda della storia. Ci fa fuggire dalla realtà.
Deriva grave e diffusa ovunque, ma con picchi di ridicolo nel nostro paese, dove, come da consolidata tradizione, gli schieramenti - tutti - il ceto intellettuale - tutto - e le classi dirigenti - tutte – si adontano a sentire la parola “armi” e sono pervasi da un grottesco pacifismo infantile, moralistico e patetico che rinverdisce lo slogan “si svuotino gli arsenali, si riempiano i granai” e ripropongono un’immagine dell’Italietta che si srotola ai piedi del nuovo padrone del vapore pronta a far patti con tutti e a leccare le scarpe di tutti pur di restare imbozzolata nella pittoresca dimensione degli italiani brava gente baffo nero mandolino. Che a sentire certe uscite – di Salvini e Conte su tutti, ma vogliamo parlare della Schlein? - c’è da ridere. O forse da piangere.
Il potere è una cosa tremenda. I rapporti di forza tra gli Stati ancora di più. Il mondo, da sempre, è popolato da brutti ceffi che dovrebbero suggerirti di imparare a difenderti. E invece la cosa più emblematica che viene in mente oggi, all’apice del caos, è il formidabile siparietto inscenato tanti anni fa da un ex capo di Stato Maggiore delle forze armate turche (nella Nato seconde solo agli Stati Uniti), che a una domanda stranamente intelligente di un giornalista - “In caso di guerra tra Turchia e Italia quanto tempo impieghereste per arrivare a Roma?” - aveva risposto con una battuta definitiva: “Dipende dal traffico in autostrada”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA