Quando mi occupo del Pd non posso non ricordare che vi militano o semplicemente aderiscono amici con i quali condivido, sia pure con distanze generazionali, la stessa origine democristiana e che ho seguito nelle tappe e nelle metamorfosi scandite dal mutare delle sigle. Tralascio malvolentieri la ricostruzione dei passaggi succeduti alla caduta delle ideologie e al machete di Tangentopoli, seguite da quella ambizione riformista che prendeva spunto ad esempio dalle numerose esperienze di governo di regioni ed enti locali, affermatesi negli anni del cambio di secolo. Non intendo certo liquidare le questioni con disinvolti giudizi e sbrigativi atti d’accusa, ma certamente l’amalgama non è riuscito, complice il fatto che alle ideologie sono subentrati i personalismi (non solo dei segretari che si sono avvicendati), al pluralismo le fazioni (troppo nobile definirle correnti) e il fallimento di un riformismo dominato alla radice da eccessi massimalisti.
Un tragitto finito sul binario morto con la sconfitta del sistema bipolare e che invece ha esaltato la capacità di un centrodestra, pur diviso, di compattarsi nei momenti cruciali, a partire dalle elezioni. Il Pd insomma deve rifondarsi non divorando uno dopo l’altro i propri segretari, ma cercando una bussola in grado di indicare se non la strada maestra, almeno la via per diventare forza di governo col voto popolare e non attraverso i sentieri del potere a tutti i costi.
Certo, sarebbe ingeneroso non riconoscere il suo ruolo di stabile riferimento per oltre il 20% degli elettori, un PD che spesso, lo si dice senza ironia, perde ma perde bene (in Liguria con oltre il 30% dei consensi così come in Lombardia, pur non toccando palla da quando sono nate le regioni nel 1970).
A livello locale la fusione a freddo tra Margherita e Ds è stata propiziata dai governi di centrosinistra, plasticamente rappresentati dai primi governi della neonata provincia. Non è certo un caso che il primo segretario del PD sia stato Virginio Brivio, già perno sul piano istituzionale di alleanze nelle vesti di presidente della Provincia. La voce degli ex democristiani era allora rappresentata da Antonio Rusconi e controbilanciata in casa Ds da Gino Sala, Beppe Conti, Lucia Codurelli, per citare alcuni autorevoli esponenti dell’ex Partito comunista. Se sul piano provinciale, il recente rinnovo del Consiglio ha evidenziato le vecchie tattiche e strategie del Pd sconfitte da centrodestra e civici, a livello cittadino tocca assistere ad un ruolo non di guida e sintesi del Pd, ma ancillare rispetto a un sindaco che non esita a dichiarare la sua non appartenenza ai partiti. Né può sfuggire quell’ossessione al ‘nuovismo’, che costringe il Pd a una azione di supporto, esponendolo al rischio di responsabilità che vanno ben oltre il proprio peso specifico nella conduzione delle vicende cittadine. Illuminante al proposito, la questione spinosa e sgradevole di Linee Lecco, dove il presidente dimissionario, quali che siano i torti, si è visto costretto a esporre le proprie ragioni in una conferenza stampa, mentre una regola aurea avrebbe suggerito un chiarimento da consumarsi in una dialettica interna tra il titolare dell’azienda (il Comune) e il suo amministratore di fiducia (Linee Lecco).
Che Mauro Gattinoni proceda nella sua rappresentazione come regista, attore e comparsa è affar suo, ma mi si permetta di affermare che l’attuale versione del Pd mi torna assai lontana dalle origini e non lascia indovinare un futuro radioso. Spesso basta un episodio a comprovare la fondatezza di una tesi o anche solo di un dubbio. Eccolo servito: di recente, in consiglio comunale, il capogruppo del Pd Pietro Regazzoni, una giovane promessa (nipote del mio caro amico Pierangelo, vulcanico, fantasioso, generoso panettiere) ha sfornato a nome del partito la candidatura di Mauro Gattinoni a sindaco per il prossimo mandato. Davvero resto spiazzato, per il metodo più che per la sostanza, convinto com’ero che il carattere distintivo di quel partito fossero le primarie, soprattutto quando le acque non sono chete e il personaggio in questione non è mai stato iscritto al partito. Dubitiamo che sia ora considerato un valore aggiunto.
Va da sé che l’indicazione di Regazzoni a oltre un anno dalle elezioni vale un fante a briscola, che se così non fosse equivarrebbe ad archiviare alfabeti, schemi, procedure, vantati da sempre come l’essenza della democrazia interna. Ma forse la faccio troppo lunga e spessa: sono più propenso a credere che il capogruppo, al quale non difetta l’autostima, sia uscito dal suo rettangolo di gioco: da promettente passerotto ha voluto per una sera provare l’ebbrezza di sentirsi aquila.
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