La campagna italiana per le elezioni europee schiera in gara tutti o quasi i leader di partito. Quasi nessuno dei quali prenderà posto nell’emiciclo del Parlamento europeo.
Una volta eletti, i nostri capi politici cederanno il posto a chi viene dopo di loro e resteranno a Roma, alla Camera dei deputati. Una procedura che l’ex presidente della Commissione Romano Prodi ha criticato aspramente qualche settimana fa dicendo che «è una pratica che deprime la democrazia»: in quell’occasione se la stava prendendo, il Professore, soprattutto con Elly Schlein più che «con la destra che queste cose le fa».
Richiamo non ascoltato, né da Schlein né tantomeno da Giorgia Meloni.
Meloni è intenzionata a trasformare il voto europeo in un referendum su di lei e il suo governo per uscirne più forte di prima e dettare la linea agli alleati mettendo all’angolo l’opposizione. Si potrà votare “Giorgia” come lei stessa ha chiesto – evocando Evita? – e come il Viminale ha certificato che si può fare (ma i costituzionalisti hanno più di un dubbio) e cementare così la sua leadership.Forte di questo consenso, lei ne trarrà la forza per cercare di inserirsi nel grande gioco finalizzato a dare a Palais Berlaymont un nuovo capo al posto di Ursula von der Leyen la cui conferma è sempre meno probabile, tant’è che i rapporti con la nostra premier si sono di recente parecchio allentati.
La speranza di Meloni è che l’Europa si sposti talmente a destra da far emergere un candidato del Partito popolare europeo meno incline di von der Leyen a trattare con i socialisti (Metsola? Weber?). Se poi il candidato dei tedeschi e dei francesi fosse Mario Draghi come si vocifera da tempo, Meloni proverebbe ad essere della partita ricavandone un dividendo politico, se non altro perché un italiano a capo della Commissione significherebbe per l’Italia non avere alcun altro commissario di peso.
Quindi, un referendum su “Giorgia”. Chi combatterà contro di lei quantomeno per renderle la vittoria la meno strepitosa possibile? Elly Schlein, anche lei decisa al grande passo. Il partito però le ha negato il nome sul simbolo e le correnti hanno fatto capire in più occasioni di non gradire questo eccesso di presenzialismo della segretaria. Anche Prodi, anche Franceschini – i suoi due sponsor dei primi tempi – avrebbero preferito che lasciasse perdere, ma la segretaria ha risposto: «Ascolto tutti ma a decidere tocca a me».
E così sarà un duello Giorgia-Elly, e se le cose andranno come dovrebbero, è possibile che le si veda insieme in televisione a duellare come ormai non succede da molto tempo: lo spettacolo è assicurato. I Cinque Stelle faranno parte del pubblico: Conte non si candida, non vuole rischiare di portare lui a casa un magro bottino. E così si limita a criticare gli altri: «Elettori ingannati da chi sa che, una volta eletto, non andrà a Bruxelles».
Anche Tajani si presenta agli elettori. Lo fa per dimostrare che Forza Italia non solo non è finita dopo la scomparsa di Berlusconi ma può legittimamente aspirare al ruolo di vero numero due della coalizione, e il ministro degli Esteri vuole agevolare (e intestarsi) questo risultato. Quanto a Salvini, il leader leghista ha deciso di candidare il generale Vannacci nonostante che quest’ultimo stia sullo stomaco a quasi tutti i capi leghisti. Dicono che il militare possa portare una montagna di voti, che è esattamente ciò di cui Salvini ha bisogno per rimanere in sella. In coda alla fila, Carlo Calenda, prima contrario, ora ha cambiato idea e scenderà in campo in tutte le circoscrizioni. Così come Matteo Renzi.
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