Economia: basta politiche a somma zero

Il confronto fra i partiti politici sulla legge di bilancio, nelle ultime settimane, si è ridotto a uno scambio di battute incrociate del genere. “No all’abbassamento dell’Irpef, meglio investire sulla sanità pubblica”, oppure “non bisogna spendere per la Difesa, meglio mantenere i bonus edilizi”, o ancora “non ci sono risorse sufficienti per tutte le famiglie numerose, possiamo permetterci aiuti solo alle più povere”. È come se fossimo intrappolati in un “gioco a somma zero”. In un simile schema, come noto, la somma delle possibili vincite di due giocatori è per definizione uguale a zero: la vincita di uno è pari alla perdita dell’altro. L’abbassamento della mia Irpef implica necessariamente un taglio ai servizi sanitari del mio vicino, un euro in più per consentire a Kiev di resistere all’invasione russa è per forza di cose un euro sottratto ai fragili, e così via.

In un’Italia gravata da un enorme debito pubblico, un simile comportamento è almeno in parte comprensibile. Rivela forse un’implicita consapevolezza, diffusasi tardivamente nella classe politica, della limitatezza dello spazio fiscale a disposizione. Tuttavia non è saggio replicare questo tipo di argomentazione in ogni dibattito sulla politica economica. In un Paese come il nostro, per fortuna, non tutto può - o peggio deve - essere ridotto a un gioco a somma zero. Si pensi, per esempio, al ruolo che possono giocare gli investimenti esteri nello sviluppo del sistema Paese. Attrarne in quantità maggiore non toglie necessariamente qualcosa a qualcuno, anzi offre potenziali chance di arricchirsi un po’ a decine di migliaia di lavoratori e imprenditori. Non si tratta di un obiettivo irrealistico, peraltro. Secondo Marco Simoni, dell’Hub dell’Università Luiss sulla nuova politica industriale, dai dati della Banca mondiale emerge che «gli investimenti netti dall’estero (Ide) in Italia l’anno scorso sono stati superiori sia alla Germania sia alla Francia. Non accadeva dal 2014 - ha scritto Simoni sul Foglio - in un contesto tuttavia in cui per tutti e tre i Paesi il dato era inferiore all’1% del Pil. L’anno scorso, invece, (…) gli Ide netti italiani sono stati l’1,5% del Pil, con la Germania allo 0,4 e la Francia allo 0,3».

Al netto delle rassicurazioni pubbliche, un colosso come Stellantis è in ritirata dall’Italia, è indubbio, ma nelle imprese straniere sondate per il rapporto Ey attractiveness survey 2024 il 74% dei dirigenti prevede di espandere o stabilire le proprie attività nel nostro Paese nei prossimi 12 mesi, in aumento del 54% sul 2023. Parliamo soprattutto di imprenditori europei, seguiti dagli statunitensi, e di settori a forte crescita come i macchinari e la farmaceutica. La stabilità politica aiuta, specie al confronto dell’instabilità che caratterizza in questa fase Germania e Francia, ma non è tutto ovviamente. Ci sono molte misure e accorgimenti, a costo zero, che possono aumentare l’attrattività dell’Italia, consentendo a chi ha idee e capitali di generare maggiore ricchezza per tutti noi.

Un discorso analogo si potrebbe fare in tema di immigrazione. La materia è politicamente sensibile, come noto, caratterizzata anche da innegabili aspetti securitari, eppure in pochi hanno notato un recente studio de “L’Economist” che contiene dati promettenti per l’Italia. Il settimanale britannico (più letto al mondo) ha stilato una classifica dei 74 Paesi potenzialmente più attrattivi per laureati e giovani immigrati qualificati. L’Italia è passata da un dignitoso quindicesimo posto nel 2010 a un ancor più promettente nono posto l’anno scorso (in cima alla classifica sempre Canada, Australia e Stati Uniti). Se fossero eliminate barriere di ogni sorta, secondo !L’Economist”, l’Italia potrebbe in teoria attrarre fino a 3 milioni di giovani laureati e altamente qualificati.

In una situazione di declino demografico drammatica come la nostra, intercettare anche soltanto una quota di questi giovani sarebbe un valore aggiunto per tutta la società. Le nostre università hanno progetti e mezzi a sufficienza per gareggiare in questa competizione per accaparrarsi i cervelli del mondo? Soprattutto, cosa aspettiamo a riformare i meccanismi di finanziamento della ricerca e della formazione in senso più meritocratico? Prima ancora, occorrerà che il dibattito di politica economica tra i partiti tenga conto di questo genere di sfide, altrimenti continueremo con le solite polemiche a somma zero.

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