«Non parteciperemo a una seconda conferenza di pace», ispirata da Zelensky e prevista probabilmente in novembre, dopo la prima di giugno in Svizzera. Così il Cremlino ha azzerato le speranze di una prossima apertura di dialogo con Kiev alle condizioni degli ucraini e quindi dell’Occidente, condizioni – è bene subito evidenziare - basate sul diritto internazionale vigente.
Sorge a questo punto una domanda: la finestra negoziale, apertasi in luglio a seguito di una lunga serie di eventi e di dinamiche favorevoli, si è ora chiusa dopo gli ultimi avvenimenti?
Iniziamo con l’osservare che oggi sono numerose le iniziative diplomatiche che mirano al raggiungimento di una tregua tra le parti con l’obiettivo della ricerca di una definitiva composizione della questione russo-ucraina.
Ognuna di esse, mai interamente pubblicizzata, ha delle peculiarità e ha origine nei più diversi ambienti internazionali, come ad esempio quella brasiliano-sud africana - Paesi fondatori del Brics, di cui fa parte anche la Russia –; quella indiana (sempre Brics) con il premier Modi a sondare il terreno in luglio a Mosca e in agosto a Kiev; oppure quella degli Stati del Golfo, i quali hanno mediato gli ultimi scambi di militari-prigionieri.
Le condizioni di partenza sono sempre le stesse, come del resto anche i problemi da risolvere.
Rispetto a luglio sul terreno si sono registrate l’incursione delle truppe ucraine nella regione russa di Kursk – la prima scioccante (per l’opinione pubblica federale) invasione di un esercito straniero della Russia dalla fine della Seconda guerra mondiale – e la quanto mai veloce avanzata delle Forze armate di Putin in Donbass con il rischio per Kiev di vedere il suo fronte addirittura rotto.
Il tutto è avvenuto nel bel mezzo di pesanti bombardamenti dall’una e dall’altra parte. Su tutti: il sistema energetico ucraino è stato quasi distrutto; uno dei principali depositi russi, pieno di missili, è esploso nella regione di Tver, provocando l’evacuazione di un’intera città. Vista la sempre maggiore precisione nemica, Mosca ha così allontanato la Flotta del mar Nero dalla Crimea per non vedersela affondare e ha trasferito anche l’aviazione più ad est.
Zelensky chiede da mesi il permesso a britannici e ad americani di usare le armi - da loro fornite - in territorio russo, ma questo permesso non viene - per ora - concesso, mentre il Parlamento europeo ha dato il suo placet. Se da una parte si vuole indurre Putin a sedersi al tavolo negoziale (senza porre troppe condizioni), dall’altra si teme che la situazione scappi di mano portando ad uno scontro diretto tra Russia e Nato.
L’escalation di minacce, però, non si ferma. Lo speaker della Duma ha affermato che un Iskander ci mette «solo 3 minuti per arrivare a Strasburgo»; l’ex presidente Medvedev ha ricordato la «dottrina nucleare» russa; gli americani hanno risposto facendosi sfuggire un’informazione su un test elettronico, realizzato in estate, su un possibile bombardamento atomico della Russia.
Tornando alla domanda posta, la finestra negoziale si è socchiusa, ma rimane ancora aperta. Putin - il cui Paese è sempre più isolato dal punto di vista economico, finanziario, logistico - ha il problema di non perderci la faccia politicamente.
Probabilmente aspetta il summit del Brics a Kazan del 22-24 ottobre, in cui la Russia rilancerà la sua immagine di anti-Occidente e guida del «Sud globale». In quello scenario il capo del Cremlino potrebbe accettare gli inviti dei partner a discutere con Zelensky.
In caso contrario, il prossimo inverno sarà durissimo in Russia e in Ucraina.
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