Uno dei termini anglosassoni più in uso nella nostra lingua è “lobby” che deriva dal latino medievale “lobium”, cioé, portico, chiostro, galleria.
Il termine “lobby” si diffuse nel Settecento per indicare i corridoi vicini alle aule parlamentari in cui gli uomini d’affari incontravano i deputati. Oggi tutti conosciamo il ruolo debordante che le lobby hanno assunto nei processi decisionali delle moderne democrazie. Si tratta di una questione che il dibattito pubblico tende a trascurare, ma che, di contro, rappresenta il nodo gordiano che ogni Stato democratico dovrebbe dipanare alla luce della crescente disaffezione del cittadino nei confronti della politica.
In verità, quando si parla di “declino della democrazia”, non si fa nulla per esaminarne le vere cause che sono da ricondurre a ragioni sulle quali il legislatore potrebbe ben intervenire. L’esempio più evidente è rappresentato dalle liste bloccate. Impedire al cittadino di scegliere i parlamentari, costituisce, invero, un grave vulnus alla democrazia rappresentativa che, per essere tale, ha vitale bisogno di quella “partecipazione” del cittadino (ex art. 3 della Costituzione) che si traduce nella possibilità di incidere concretamente nella selezione del ceto politico. Risulta innegabile che la rappresentanza, nella sua accezione democratica, non dovrebbe mai revocare il diritto degli elettori di scegliere gli eletti. Per questa ragione, da anni stiamo celebrando una versione caricaturale di democrazia rappresentativa che ha finito per alimentare nel cittadino la sfiducia nelle istituzioni e la convinzione di “non contare nulla” a causa di una nozione distorta di “sovranità popolare” nella quale il popolo si è visto strappare lo scettro da altri attori, non sempre riconoscibili.
Il sistema dei partiti, inutile nasconderlo, ha assecondato questo spostamento dell’asse democratico verso siti non identificabili e verso luoghi con un altissimo tasso di concentrazione di potere, politico ed economico. Con il lievitare dei costi della politica è aumentata la tendenza dei partiti a farsi interpreti di interessi settoriali che hanno finito per svilire la vera essenza del confronto democratico che risulta inficiato dalla potenza straripante di soggetti avvezzi ad adoperare qualunque strumento, lecito e illecito.
Questa è la chiave di lettura in grado di illustrare le ragioni per cui nessun partito suole contestare le liste bloccate malgrado l’abolizione delle preferenze abbia abbassato in modo significativo la qualità dei nostri parlamentari chiamati ad essere meri esecutori di accordi stipulati altrove. Il problema che si pone, pertanto, risulta di fondamentale importanza: un vero sistema democratico può ritenersi compatibile con un reticolo di interessi organizzati in grado di insediare i proprio uomini nei gangli del sistema (assemblee elettive, organi di garanzia, consigli di amministrazione, stampa, televisione)? Le numerose inchieste giudiziarie dimostrano la vastità di una mappa corruttiva in crescente espansione le cui articolazioni toccano l’intero sistema dei partiti.
La compatibilità tra democrazia e lobby costituisce un tema che non può essere risolto semplicisticamente appellandosi ad un generico obbligo di trasparenza dato che l’imperativo democratico della solidarietà redistributiva confligge in modo macroscopico con quello della concentrazione della ricchezza in poche mani (Elon Musk o Bill Gates vantano redditi pari o superioro al Pil di molti Stati).
Occorre riconoscere che l’aumento delle disuguaglianze sociali sul pianeta rappresenta la logica conseguenza dello strapotere di minoranze rapaci che hanno svuotato la democrazia dall’interno del tutto sprezzanti del vecchio monito di Rousseau secondo il quale “la democrazia esiste laddove non c’è nessuno così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi”.
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