L’economia italiana continua a crescere, certo non più ai ritmi straordinari dell’immediato post-pandemia, ma allo stesso tempo senza brusche frenate. Nel secondo trimestre di quest’anno, stando alla stima preliminare dell’Istat, il prodotto interno lordo (Pil) è aumentato dello 0,2% dal trimestre precedente.
L’incremento è dovuto stavolta al sostegno della domanda nazionale e alla crescita del settore terziario - turismo incluso, dunque - che fornisce un contributo positivo tale da compensare i risultati negativi di agricoltura e industria.
Come valutare un simile aumento? Per avere un termine di paragone, la crescita media dell’Eurozona negli stessi tre mesi è stata dello 0,3%, un decimale superiore, mentre la prima economia del continente – la Germania – è apparsa bloccata (-0,1%). L’Italia peraltro fa segnare il quarto risultato positivo consecutivo e se nei prossimi due trimestri che ci separano dalla fine dell’anno il Pil non subisse variazioni, la crescita acquisita per il 2024 – fa sapere l’Istat – sarebbe pari allo 0,7%. Con soli due trimestri alle spalle, è già più di quanto previsto dalla Banca d’Italia (0,6%), è in linea con le aspettative di crescita dell’Eurozona (0,8%) ma è ancora meno di quanto previsto dal Governo (1%). Decimali di differenza che pesano, specie se ne consideriamo la potenziale trasformazione in miliardi di euro di gettito fiscale, visto che l’indebitamento del Paese è prossimo ai 3.000 miliardi di euro, la spesa pubblica nel 2023 è stata di 1.150,7 miliardi (pari al 55,2% del Pil) e perciò un’iniziativa concreta per una “spending review” è quantomai urgente.
Come incentivare, dunque, l’incremento del Pil nel lungo termine? Di ricette tra cui scegliere ce ne sono molte, alcune fin troppo “di dettaglio”. Quello che sarebbe bene non perdere di vista è un discorso di metodo per la politica economica dell’esecutivo. Oggi tendiamo a sovrastimare le nostre conoscenze su cosa generi la crescita nell’epoca contemporanea, ha osservato di recente l’economista Daniel Susskind: «Il poco che sappiamo suggerisce che essa non deriva in realtà dal mondo delle cose tangibili ma piuttosto dal mondo delle idee intangibili; non dal divorare ancora più risorse finite – suolo, popolazione, macchinari e via dicendo – ma dallo scoprire nuove idee che rendono ancora più produttivo l’uso di quelle risorse. Detto in parole semplici – scrive lo studioso di Oxford sul Financial Times – una crescita economica sostenuta deriva da un implacabile progresso tecnologico».
Da una simile considerazione discendono due utili suggerimenti. Il primo è soprattutto per la classe politica: dismetta la hybris che le fa ritenere di essere artefice della crescita economica. Non esiste una leva da azionare per far salire il Pil. Piuttosto, per citare il trader e saggista Nassim Taleb, in molti casi occorrerebbe rivalutare l’inazione a discapito dell’interventismo a tutto campo che può alimentare incertezza o spiazzare investimenti. Scarseggiano nella storia le figure di eroi che sono diventati tali per ciò che non hanno fatto, visto che «l’inazione è difficile da osservare», ma sempre Taleb ci ricorda che ne avremmo almeno uno cui ispirarci proprio qui nella nostra penisola: quel Fabio Massimo il Temporeggiatore che «fece impazzire Annibale, che possedeva un’evidente superiorità militare, evitando e rimandando lo scontro».Il secondo suggerimento riguarda la scelta della priorità su cui concentrare le risorse pubbliche e private disponibili, a partire da «ricerca e sviluppo» (R&D). L’Unione europea, al netto di tanti proclami, spende in R&D meno di tutti gli altri grandi blocchi geopolitici: il 2,23% del Pil contro il 2,42% della Cina e il 3,46% degli Stati Uniti. L’Italia, da sola, fa anche peggio, con un esiguo 1,33% del Pil impiegato in R&D nel 2022. I margini di miglioramento sono ampi e alla nostra portata.
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