Ricordati che il capo sono sempre io. Se dovessimo semplificare nel modo più tranchant la diatriba in corso tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, dovremmo arrivare a questa frase poco “”politichese”. Ma molto vicina alla verità.
Riassumiamo per il lettore le ultime puntate (in aggiornamento costante) della lite: Giuseppe Conte ha indetto per il 4 ottobre, quindicesimo compleanno del Movimento, gli Stati Generali dei pentastellati cui parteciperanno i delegati dei gruppi e delle strutture territoriali.
Un’iniziativa obbligata dopo le sconfitte del M5S alle ultime elezioni: se si eccettua il caso isolato della elezione di Alessandra Todde in Sardegna, negli ultimi mesi i Cinque Stelle hanno vissuto in un incubo elettorale culminato con le elezioni europee di giugno. Ha invece dimostrato di essere ancora vivo e vitale il Pd di Elly Schlein cui Conte pensava di poter dare ripetuti ultimatum («O vi alleate con noi e alle nostre condizioni o andate a sbattere») e che invece oggi si è consolidato caparbiamente nel posto di primo partito dell’opposizione.
Conclusione: alle prossime politiche per il M5S la sentenza è scontata, a meno non ci si decida a fare qualcosa. Conte ha lanciato un segnale e ha proposto di mettere in piedi una struttura organizzativa più solida dandole slancio con la convocazione di una assemblea detta “Stati Generali”. Il cui presupposto di base, intendiamoci, è proprio la leadership di Giuseppe Conte senza il quale, nota uno che se ne intende come Marco Travaglio, il Movimento semplicemente non esiste più.
Ma proprio questo è il punto su cui Grillo è scattato: nessuno mi ha chiesto il permesso di fare questa assemblea, a me che sono pur sempre il fondatore dei Cinquestelle, e anche il suo garante (e pure il consulente a stipendio per la comunicazione). Da qui una lettera a Conte formale (per evidenziare il distacco) e pepata nei contenuti che accusa l’attuale leader di non aver saputo conservare il patrimonio elettorale del 2018, anzi di aver sperperato l’identità del Movimento che di quel patrimonio era il presupposto ideale, e arriva a contestare l’idea stessa di un’Assemblea come culmine di una struttura stabile e organizzata (quale lui e Casaleggio non hanno mai voluto) riproponendo riunioni ristrette per discutere i temi politici. Insomma, dall’uno uguale uno ai “caminetti” delle correnti dei vecchi partiti.
Conte ha risposto a questa dura reprimenda rivendicando la sua leadership e anche la linea politica che ha scelto per il Movimento: quella di una sinistra che somiglia molto di più a Mélenchon che al Pd, anche al Pd di Elly Schlein; una sinistra radicale, pacifista, contraria a mandare le armi a Kiev e nettamente filopalestinese. Non a caso gli europarlamentari del M5S sono stati fatti iscrivere al gruppo «The Left» capeggiato proprio da La France Insoumise. Questa sterzata verso sinistra mira a ritrovare tutti quegli elettori che si erano fatti convincere dalla protesta grillina che dieci-quindici anni fa riempiva le piazze; e nello stesso tempo non rinuncia a fare concorrenza «da sinistra» al Pd per cercare di recuperare il terreno perduto negli ultimi tempi.
Nel sottotesto però Conte rinfaccia a Grillo di aver imposto a suo tempo di sostenere il governo di Mario Draghi nonostante quest’ultimo fosse contrarissimo alle misure simbolo del Movimento, a cominciare dal Superbonus. Fu in quei compromessi, sostiene l’ex “avvocato del popolo” la vera dispersione dell’identità pentastellata. Ricordandogli una mossa politica considerata suicida, nella sostanza Conte archivia Grillo: bisogna vedere però se quest’ultimo ha ancora qualche cartuccia da sparare. Per esempio sulla candidatura alla Regione Liguria del post-Toti.
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