La Corte corregge la Corte e scardina una propria sentenza. Così sul fine vita si riapre un dibattito rovente in attesa che il Parlamento a settembre riprenda l’esame dei vari disegni di legge sull’argomento. Il card. Matteo Zuppi presidente della Cei pochi giorni fa a Bologna aveva invitato a non giocare “a chi fa più a spallate”, ma a “trovare risposte”. Ebbene ieri una spallata è arrivata dalla Corte Costituzionale, da cui prima è scivolata ad un importante quotidiano ormai house organ dell’Associazione radicale Luca Coscioni e poi pubblicata sul proprio sito, una sentenza che allarga l’accesso al suicidio assistito.
I contenuti preoccupano perché sbaragliano la prudentissima giurisprudenza che fin qui la Consulta ha sviluppato, sollecitando il legislatore ad occuparsi della materia per evitare di certificare il diritto alla morte attraverso sentenze dei tribunali.
Le sollecitazioni al Parlamento non hanno sortito effetti e la questione si trascina da anni tra Senato e Camera. La Corte, quando chiamata in causa, ha sempre dimostrato un comportamento lineare: nessun ampliamento delle maglie e paletti precisi di fronte al moltiplicarsi di sentenze di tribunali, di ordinanze regionali e addirittura di decisioni di aziende sanitarie in attesa del legislatore nazionale.
Ma ieri ha corretto se stessa, pur continuando a sollecitare una legge, e ha stabilito che il concetto di “trattamento di sostegno vitale” può essere ampliato. Dunque non sarebbe solo quello prodotto da una macchina, che a volte sfiora l’accanimento terapeutico, ma anche quello realizzato con una terapia palliativa o addirittura solo con la cura e l’impegno di persone che si dedicano al malato ben sapendo che la malattia è irreversibile.
La sentenza della Corte mette drammaticamente sullo stesso piano possibilità di interrompere i trattamenti di sostegno vitale, a certe condizioni e secondo le regole, e desiderio di mettere fine alla vita. E lascia ai giudici e al Sistema sanitario nazionale il potere di farlo, aprendo la porta alla possibilità che la richiesta esplicita parta dello stesso malato, che abbia o no già iniziato il trattamento. Qui è il punto cruciale che supera la precedente giurisprudenza della Corte: il rispetto assoluto dell’autodeterminazione della persona. In passato la Consulta si era smarcata da questa visione avvertendo del rischio che si corre per le persone più fragili o meno assistite.
Inoltre una sentenza di questo tipo, più estensiva, potrebbe annientare tutta la riflessione e la legislazione sulle cure palliative. In realtà le cure palliative non sono mai entrare seriamente in gioco. All’Italia è stato riconosciuto di avere la legge migliore del mondo, ma le informazioni per i cittadini sono poche e i finanziamenti irrisori. E in tempi di bilanci corti, di tagli al Sistema sanitario nazionale, di battaglie ideologiche sulle liste d’attesa è assai difficile ottenere consenso sulle cure palliative con lunghe degenze in hospice o a casa per curare e non per guarire. Insomma è ben più economico il percorso alternativo del farmaco letale.
La sentenza, in attesa di leggere le più ampie motivazioni, serve ad orientare in qualche modo il legislatore in tempi di scarse risorse? Potrebbe essere un indizio per capire la spallata. Ma c’è anche un altro profilo che inquieta. Con questa sentenza la Corte sembra garantire in modo più estensivo un diritto alla morte rispetto al diritto alla vita, invece tutelato dalla Costituzione, come aveva ribadito nella sentenza 50/2022 la stessa Corte, quando dichiarò inammissibile il referendum sulla non punibilità dell’omicidio del consenziente che avrebbe aperto la strada all’eutanasia.
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