Iniziata male, è finita bene: l’Italia, uscita dalla porta, è rientrata dalla finestra.
Dunque, Raffaele Fitto, espresso dal governo di Giorgia Meloni, è uno dei 6 vice presidenti esecutivi della Commissione europea.
All’italiano a Bruxelles è stata data la delega alla Coesione (vale circa 378 miliardi) e alle Riforme e quindi gestirà i fondi del Pnrr con il lettone Dombrovskis, solitamente descritto come un falco del rigore finanziario. Per l’Italia è un’assunzione di responsabilità e l’occasione per una collaborazione costruttiva: onori e oneri, vedremo se sarà così.
Fitto, che già governa come ministro la messa a terra del Pnrr, ha le credenziali a posto e ora, come usa dire, sarà giudicato dai fatti in quanto ha in sé un’ambivalenza: quella di essere un moderato in un partito sovranista che, a sua volta, ha votato contro il bis di Ursula von der Leyen.
Il commissario italiano uscente all’Economia, il dem Gentiloni, conclude il mandato nell’apprezzamento generale e l’augurio è che il nuovo rappresentante del nostro Paese faccia altrettanto. Portando a casa un risultato positivo, il governo chiude un’estate tempestosa e, con la prossima legge di bilancio, apre l’autunno in grigio dei conti pubblici all’insegna del percorso di rientro da deficit e debito eccessivi.
Il Pd, costretto a opzioni soltanto scomode e scegliendo la “pausa di riflessione”, deve fare un relativo buon viso a cattiva sorte e ricorrere ai distinguo in nome dell’interesse nazionale.
Ma, più in generale, socialisti-lberali-verdi (la maggioranza Ursula con i popolari del Ppe), dopo aver contrastato la nomina del conservatore italiano, hanno ricevuto uno schiaffo. La chiusura del cerchio sarà a ottobre con l’audizione dei commissari alle Commissioni dell’Europarlamento, un passaggio delicato. I singoli Paesi e partiti devono valutare le priorità dell’esecutivo e se, nella distribuzione dei portafogli, i conti per loro tornano sia nei riconoscimenti sostanziali, ottenuti o meno, sia negli accomodamenti cosmetici. Colpi di scena sono sempre possibili e lo abbiamo visto in queste ore con le dimissioni del francese Breton che ha contestato frontalmente la gestione von der Leyen. I due non si sono mai presi. Il commissario al Mercato interno dimissionario ha condotto dossier rilevanti, è una personalità brillante e scomoda, da tempo in rotta di collisione con il vertice. Non l’unico, anche Gentiloni negli ultimi tempi ha mosso qualche rilievo critico.
Ursula, detto forse un po’ brutalmente, ha voluto e ottenuto lo scalpo dell’ingombrante Breton, un competitore interno, evidenziando da un lato la debolezza di Macron e dall’altro la determinazione di accentrare su di sé tutti i poteri. La variante francese nella complicata architettura istituzionale dell’Unione ha avvicinato la nomina di Fitto in un gioco a incastro dominato dalla signora tedesca e dal suo partito, il Ppe, che ha incassato 14 commissari (5 ai socialisti e altrettanti ai liberali), riflesso dei nuovi equilibri all’Eurocamera. Quel che è cambiato fra il primo e secondo mandato dell’esecutivo europeo è la verticalizzazione del potere centrata sulla pax di Ursula e riassunta dalla sua figura di Lady Europa alla guida di un collegio di commissari più docili. La presidente ritiene che questo sia il momento per spingere in avanti, in un modo senza precedenti, il ruolo suo e dell’esecutivo: già è stata criticata per sovraesposizione personale sempre meno gradita ai governi, per gestione verticistica, poco collegiale e trasparente. Va così a compimento il ciclo politico inaugurato dalle recenti elezioni europee con una serie di traiettorie: la seconda ondata nazional-populista, la riaffermazione di una maggioranza europeista e lo sconquasso in Francia e in Germania, i due Grandi che di fatto continuano a essere in campagna elettorale. Il primo ha rimediato un governo di centrodestra di minoranza con sostegno esterno dell’ultradestra, il secondo a fine settimana affronta il voto in Brandeburgo dopo lo choc in Turingia e Sassonia con possibile impatto sulla cancelleria. La crisi di Macron e Scholz spiega, almeno in parte, il decisionismo di von der Leyen che ha dato le promozioni ai grandi Paesi prima che ai partiti che l’hanno sostenuta, andando oltre la sua stessa maggioranza, attenuandone così il peso partitico.
Il controverso gioco di sponda con i conservatori consente (in teoria) di tenere distinti e distanti Meloni dai vari Orban e, nel contempo, di aggiungere un ipotetico soccorso alla volatile coalizione centrista dell’Europarlamento.
Scommessa spericolata o meno, è con questa piattaforma che l’Ue dovrà dotarsi della bussola del Rapporto Draghi, accolto con cauta soddisfazione da Ursula, che pure l’aveva ordinato, e già impallinato, per quel che riguarda il debito comune, da una parte del governo tedesco. Il rischio “esistenziale” per l’Europa avvertito dal banchiere che ha salvato l’euro (e che ha ribadito a Strasburgo) chiama a una svolta radicale un continente afflitto da mali antichi e nuovi e che deve affrontare riforme ormai non rinviabili: avrà il coraggio e la volontà politica di invertire la corsa al proprio declino?
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