Cittadinanza ai migranti, coalizioni divise

Vita dura per i fautori del cosiddetto “campo largo”. Un progetto che stenta ad avere padri e madri, figuriamoci un futuro. Esemplare la storia del referendum sulla cittadinanza.

La notizia di queste ore è che i promotori del referendum che si propone di accorciare a cinque anni la possibilità per gli immigrati regolari, di diventare cittadini italiani, hanno raccolto 500mila firme: Riccardo Magi e Benedetto della Vedova di +Europa hanno insomma già raggiunto il numero sufficiente di adesioni, adesso continueranno a raccoglierle fino al 30 settembre e poi il quesito verrà sottoposto al giudizio della Cassazione e della Corte Costituzionale e - se dichiarato ammissibile - andremo a votare in primavera. Elly Schlein ha firmato il 14 febbraio, poco dopo l’inizio della raccolta delle firme; di seguito si sono uniti quelli di AVS, Nicola Fratoianni e Bonelli, e persino Matteo Renzi. Giuseppe Conte no. Nemmeno Carlo Calenda per la verità, ma per come è ridotto il suo partitino, quasi non fa più notizia. Dicevamo di Conte: prima ha promesso che avrebbe letto attentamente il quesito e poi fatto sapere la sua decisione se firmare o no. Non ha mai firmato. I suoi hanno fatto sapere che il M5S preferisce sostenere la loro proposta di legge sullo ius scholae piuttosto che aderire al quesito referendario.

In realtà, anche il Pd ha il suo progetto e anche Avs che si batte da sempre per lo ius soli, ma tutti hanno dato una mano a Magi a raccogliere le firme per non lasciarsi sfuggire un’ottima occasione per dimostrare che, su un tema sensibile come quello degli immigrati (perdipiù regolari) la sinistra, se unita, è in grado di battere il centrodestra.

I contiani (ormai possiamo evitare di usare la vecchia dizione di “grillini”, parola che non significa più nulla nel M5S) preferiscono fare da soli. E quando si andrà in aula a discutere dei progetti di legge che, se approvati, potrebbero evitare la prova referendaria, il M5S sosterrà la sua parte per poter contare sulla visibilità regalata da un’iniziativa autonoma. Conte infatti è fatto così: benché i numeri abbiano frustrato la sua ambizione di guidare un partito più grosso del Pd e quindi leader della sinistra, la sua tattica resta la stessa: scegliere una strada e chiedere agli altri di seguirlo e se non lo fanno meglio andare da soli.

C’è da aspettarsi che la stessa cosa avverrà da oggi ai prossimi giorni sulla vicenda delle nomine televisive. In un primo momento sembrava che Elly Schlein avesse convinto il suo ipotetico alleato a scegliere l’atteggiamento dell’Aventino: «Cara Meloni, fatti la tua televisione ma noi non ne vogliamo sapere».

Questo significava non partecipare alle votazioni parlamentari per scegliere tra Montecitorio e Palazzo Madama quattro componenti del consiglio di amministrazione della tv pubblica e non essere presenti al momento del voto sul presidente del Palazzo del Cavallo in Commissione di Vigilanza (uscire tutti significherebbe anche impedire qualche gioco sottobanco). Difficile che questi patti verranno mantenuti: oggi potremmo essere smentiti ma pensiamo che nel «campo largo» ognuno andrà per conto proprio. A dimostrazione di un’alleanza che proprio non si riesce a mettere in piedi.

Ma per tornare alla cittadinanza. Anche la maggioranza ha i suoi problemi. Se infatti Giorgia Meloni (con toni moderati) e Matteo Salvini (con parole ben più nette) si oppongono a modificare la legge del ‘92 che prevedeva un ciclo di dieci anni per concedere la cittadinanza, sensibilmente diversa è la posizione di Antonio Tajani che annuncia la presentazione di una proposta di legge sullo ius scholae per il quale dopo dieci anni di ciclo scolastico si diventa automaticamente cittadini italiani. Una proposta che non piace né a Fratelli d’Italia, né alla Lega.

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